MARION ZIMMER BRADLEY
L'ESILIATO DI DARKOVER
(The Bloody Sun, 1964)
Per avermi mostrato universi senza numero
in affettuoso ricordo, questo volume è dedicato a
Henry Kuttner
PROLOGO
QUARANT'ANNI PRIMA
Leonie Hastur era morta.
La vecchia Sapiente che il popolo chiamava "la Strega dei Comyn" — la Guardiana della Torre di Arilinn, una lettrice del pensiero addestrata in tutti i poteri della scienza delle matrici di Darkover — era morta com'era sempre vissuta: sola, chiusa negli ultimi piani della sua Torre, e neppure la sua apprendista, Janine Leynier di Storn, avrebbe saputo dire il momento esatto in cui la morte era entrata tranquillamente nell'alto edificio bianco e se l'era portata via, per condurla forse in uno di quei mondi spirituali dove Leonie sapeva muoversi con la stessa familiarità con cui si muoveva nel giardino-serra dei suoi appartamenti. Era morta sola, e nessuno l'aveva rimpianta, perché anche se Leonie Hastur, in tutti i regni di Darkover, era temuta e riverita quasi come una dea, non era amata da nessuno.
Tuttavia, non era stato sempre così. C'era stato un tempo in cui Leonie Hastur era giovane, bellissima e casta come la luna, e i poeti amavano paragonarla a Liriel, il satellite di Darkover dalle sfumature violacee, o a una divinità scesa a vivere tra gli uomini. Nei primi tempi, tutti coloro che vivevano sotto il suo dominio, nella Torre di Arilinn, avevano nutrito una vera e propria adorazione per lei. E una volta, nonostante la severità dei voti da lei fatti (e a causa dei quali sarebbe stato un inammissibile sacrilegio che gli occhi di un uomo si posassero su di lei), Leonie aveva avuto anche un innamorato. Ma da allora erano passati molti anni.
E con il passare del tempo, a mano a mano che Leonie si era isolata dalla comune umanità, l'amore per lei era diminuito, la paura e l'odio erano aumentati. Anche il vecchio Reggente, Lorill Hastur, suo fratello gemello (infatti, Leonie apparteneva al ceppo reale degli Hastur di Castello Hastur, e se non avesse scelto la Torre, sarebbe stata superiore a qualsiasi regina) era morto da tempo. Adesso, colui che stava dietro il trono di Stefan Hastur-Elhalyn e che deteneva veramente il potere era un nipote che Leonie conosceva solo superficialmente. Ma anche per lui Leonie era solo un mormorio, una vecchia leggenda e un'ombra.
E adesso che era morta, l'avevano seppellita come voleva la tradizione, in una tomba senza nome entro le mura di Arilinn, dove non poteva giungere alcun essere umano che non avesse sangue Comyn: una reclusa anche dopo morta, così come lo era sempre stata in vita. E quasi tutti coloro che avrebbero potuto rimpiangerla erano ormai morti.
Uno dei pochi che si addolorò per la sua morte fu Damon Ridenow, che anni prima aveva sposato una Alton e che per qualche tempo era stato Reggente di quel regno, per conto del suo giovane erede, Valdir di Armida. In seguito, allorché Valdir era giunto alla maggiore età e si era sposato, Damon si era trasferito nel suo palazzo sul Lago Mariposa, ai piedi dei Monti Kilghard, con tutta la sua corte, che era piuttosto grande. Ma molti anni prima, quando erano tutt'e due giovani e lui era un meccanico delle matrici nella Torre di Arilinn, Damon si era innamorato di Leonie: un amore del tutto ideale, senza mai sfiorarla e senza il minimo pensiero di spingerla a infrangere i voti. Tuttavia, il ricordo di quell'amore era uno di quelli a lui più cari; e quando gli giunse notizia della morte di Leonie, si ritirò nel suo studio e versò alcune lacrime: una cosa che non avrebbe mai fatto davanti alla moglie, alla sorella della moglie, che un tempo era apprendista Guardiano sotto Leonie, o ad altre persone del palazzo. E anche se queste erano venute a sapere del suo dolore — in una casa di lettori del pensiero Comyn, non erano cose che si potessero nascondere — nessuno ne avrebbe parlato; neppure i figli e le figlie adulti chiesero perché il padre piangesse in segreto. Leonie, per loro, naturalmente, era solo una leggenda.
Così, a mano a mano che la notizia si diffondeva nei Regni, la gente prese a rivolgersi con preoccupazione, anche nelle regioni più lontane, una domanda che riguardava tutti, dai Monti Hellers alle Piane di Arilinn: «Adesso, chi sarà il nuovo Guardiano della Torre?»
E, poco più tardi, Damon ricevette nel suo studio una visita inaspettata: quella della figlia più giovane, Cleindori.
La ragazza aveva un nome tradizionale, Dorilys, che significava "Fiore d'Oro". Ma da piccola, a causa dei suoi capelli biondi e dei suoi occhi blu, alle bambinaie piaceva vestirla di azzurro, e la madre adottiva, la moglie di Damon, Ellemir, la paragonava sempre alla campana azzurra del fiore del kireseth,quando era coperto del suo polline dorato. Perciò, fin da piccola, l'avevano soprannominata Cleindori,"Campana d'Oro", il nome comune del fiore del kireseth. Poi, con il passare degli anni, la gente si era quasi dimenticata che si chiamasse in realtà Dorilys (e di cognome Aillard, perché la madre apparteneva a quella famiglia, in cui i figli prendono il cognome della madre).
Crescendo, la ragazza era diventata molto alta per la sua età, e oggi era una tredicenne dall'aria riflessiva, e con i capelli rosso-oro. Il colore era un po' più chiaro del rosso-fiamma dei Comyn, ma si sapeva che, fin dai tempi del Caos, nel clan Ridenow c'era una certa dose di sangue delle Città Aride; inoltre, la stessa madre di Cleindori era figlia di un principe-predone di una di quelle città, Shainsa. Ma quello era uno scandalo ormai dimenticato; adesso, nel guardare la figlia che si stava facendo donna, Damon pensò soprattutto a una cosa: per la prima volta della sua vita, cominciava a sentirsi vecchio.
«Hai fatto al galoppo tutta la strada da Armida?» le chiese «E il tuo padre adottivo non ha detto niente?»
Cleindori sorrise e si chinò a baciare il padre, sulla guancia. «Non ha detto niente perché non ne era stato informato», spiegò allegramente. «Però, non ero sola, perché c'era anche mio fratello adottivo Kennard.»
A nove anni, come si usava tra le famiglie nobiliari di Darkover, Cleindori era stata inviata come figlia adottiva in un'altra famiglia, perché venisse allevata con una severità superiore a quella materna e paterna. Era stata adottata da Valdir, il Signore di Alton, la cui moglie Lori aveva solo figli maschi e desiderava una figlia da allevare. C'era anche un'intesa di massima, perché Cleindori, una volta giunta all'età del matrimonio, sposasse il primogenito degli Alton, Lewis-Arnad; ma a Damon non parve che la ragazza pensasse molto al matrimonio, almeno per ora: lei e i due figli di Valdir, Lewis e Kennard, erano come fratelli. Ora, Damon accolse Kennard con l'abbraccio riservato ai parenti e lo osservò con attenzione — era un giovane alto e robusto, largo di spalle, di un solo anno più giovane di Cleindori — e disse:
«Vedo che mia figlia è stata ben custodita durante il tragitto. Che cosa vi porta qui, ragazzi? Eravate usciti con il falcone e vi siete attardati, e avete preferito venire qui da me per la notte, a mangiare dolci e torte invece del pane e acqua che vi attendevano a casa come punizione?»
«No», rispose Kennard, con serietà. «Cleindori diceva di avere assoluto bisogno di vedervi, e mia madre ci ha dato il permesso di venire. Anche se non so se abbia capito bene quel che le dicevamo, perché ad Armida regnava una grande confusione, come sempre da quando è giunta la notizia.»
«Che notizia?» chiese Damon, anche se credeva già di conoscerla, e aveva un nodo alla gola.
Cleindori si sedette su un cuscino, davanti a lui, e lo fissò con attenzione. Disse: «Caro padre, tre giorni fa è giunta ad Armida la Nobile Janine di Arilinn per cercare qualcuna che fosse degna di divenire la Signora di quella Torre, al posto di colei che è morta, la Sapiente Leonie».
«Ha impiegato un bel po' di tempo, per arrivare ad Armida», commentò Damon, storcendo il naso. «Scommetto che ha già cercato in tutti gli altri Regni, prima di recarsi laggiù.»
Cleindori annui. «Lo penso anch'io», rispose, «perché, dopo avere saputo chi ero, mi ha guardato come se avesse fiutato un cattivo odore e ha detto: "Visto che sei della Torre Proibita, ti hanno insegnato qualcuna delle loro eresie?" Inoltre, quando la Nobile Lory le ha detto il mio nome, si è incollerita, e ho dovuto spiegarle che mi chiamo Dorilys, in realtà. Ha commentato: "Be', visto che lo vuole la legge, devo misurare il tuo Potere. Non posso rifiutartelo".»
Fece una smorfia uguale a quella della Sapiente, e Damon si portò la mano alla bocca, come se riflettesse, ma in realtà per mascherare un sorriso: Cleindori aveva un vero talento di imitatrice, e aveva colto perfettamente il tono acido e lo sguardo di disapprovazione di Janine. Dopo un istante, Damon disse: «Certo. Janine era una di coloro che avrebbero voluto mandarmi al rogo o cavarmi gli occhi, quando ho litigato con Leonie per il diritto di usare le mie doti nel modo da me voluto, e non come pretendevano alla Torre. Il fatto che tu sia mia figlia non l'ha certo predisposta a un grande affetto verso di te».
Cleindori tornò a sorridere allegramente. «Posso sopravvivere anche senza il suo affetto; ho l'impressione che non abbia mai avuto affetto per nessuno, neppure per un gattino! Ma volevo riferirti, padre, quello che mi ha detto. Mi è parsa soddisfatta quando le ho spiegato che non mi avevi insegnato ancora niente, e ancor più quando ha saputo che ero ad Armida dall'età di nove anni; poi mi ha dato una matrice e ha esaminato il mio Potere. Dopo averlo fatto, mi ha detto che voleva che la accompagnassi ad Arilinn; a quel punto ha aggrottato la fronte e ha detto che non avrebbe voluto scegliere me,ma che eravamo in poche a poter sopportare quel tipo di addestramento e che voleva addestrarmi come Guardiana.»
Damon stava per protestare con indignazione, ma tacque nel vedere che a Cleindori brillavano gli occhi. «Padre, le ho detto, come era mio dovere, che non potevo entrare in una Torre senza il consenso di mio padre; e poi sono corsa qui per chiedertelo.»
«E non lo avrai», disse Damon, seccamente. «Almeno, finché sarò vivo io. E neanche dopo, se riuscirò a impedirlo.»
«Ma, padre... essere la Guardiana di Arilinn! Neppure la Regina...»
Damon serrò i denti. Dopo tanti anni, ecco la mano di Arilinn tendersi di nuovo verso una persona da lui amata. «Cleindori, no», disse, e le accarezzò i capelli color del rame legato con l'oro. «Tu ora vedi solo il potere. Non vedi la crudeltà di quell'addestramento. Per essere Guardiana...»
«Janine me ne ha parlato», rispose la giovane. «Ha detto che l'addestramento è lungo e severo, mi ha parlato dei voti e delle rinunzie. Ma ha anche detto che secondo lei sarei stata in grado di superarlo.»
«Figlia...» disse Damon, inghiottendo a vuoto, «nessuno può sopportare qualcosa di simile!»
«Via, questa è un'assurdità», rispose Cleindori, «perché tu l'hai sopportato, padre. E l'ha sopportato anche Callista, che una volta era apprendista di Leonie ad Arilinn.»
«Hai idea di quanto è costato a Callista, figlia?»
«Me l'hai detto e ripetuto quando ero bambina», rispose lei. «E altrettanto ha fatto Callista, spiegandomi che era una vita atroce e innaturale. E fin da bambina mi hanno raccontato la storia di come tu e Callista abbiate sconfitto Leonie e l'intera Torre di Arilinn in un duello che durò per tutta la notte.»
«La lotta è diventata così lunga?» chiese Damon, con una risata. «In realtà è durata meno di un quarto d'ora, anche se poi la tempesta infuriò per vari giorni. Ma abbiamo vinto Arilinn e ci siamo conquistati il diritto di usare il Potere come volevamo e non come imponevano loro.»
«Sì, ma vedo anche», obiettò Cleindori, «che tu e Callista, che siete stati addestrati ad Arilinn, avete raggiunto un livello elevatissimo, mentre coloro che sono stati addestrati qui sono molto esitanti nell'uso dei loro doni. E so anche che le altre Torri seguono l'esempio di Arilinn.»
«I poteri che ci sono stati insegnati...» iniziò Damon, a voce alta. Poi cercò di parlare con calma. «Fin da quando ero giovane, ho creduto che l'insegnamento di Arilinn e delle altre Torri che le obbediscono fosse crudele e inumano. E ho combattuto perché coloro che lavorano nelle Torri non debbano essere dei reclusi, che sacrificano la vita all'interno delle loro mura.
«Le doti da noi possedute», continuò, «possono essere apprese da tutti, Comyn e popolani, se nascono con le capacità adatte. E come suonare il liuto; si può nascere con un buon orecchio per la musica e si può poi imparare a suonare lo strumento, ma neppure per una simile vocazione si può chiedere a una persona di rinunciare alla casa e alla famiglia, alla vita e al matrimonio. Abbiamo insegnato molto, a molte persone, e ci siamo guadagnati il diritto di farlo. Verrà un giorno, Cleindori, in cui l'antica scienza delle matrici di Darkover sarà alla portata di chiunque voglia impararla e non ci sarà più bisogno di Torri.»
«Ma noi continuiamo a essere dei reietti», disse Cleindori. «Padre, dovevi vedere con che espressione Janine parlava di te e della Torre Proibita...»
Damon aggrottò la fronte. «Non perderò certamente il sonno a causa di quel che Janine pensa di me.»
«Ma Cleindori ha ragione», disse Kennard. «Siamo dei rinnegati. Qui in campagna la gente vi segue, ma in tutti gli altri regni si rivolgono alle Torri per imparare a usare il Potere. Anch'io intendo andare in una Torre, Neskaya o Arilinn, dopo avere fatto i miei tre anni di servizio nella Guardia; ma se Cleindori andrà ad Arilinn, mi hanno detto, io non potrò andarci finché non avrà terminato i suoi anni di isolamento, perché un Guardiano in addestramento non può abitare nella stessa Torre con un fratello adottivo o un parente...»
«Ma Cleindori non andrà ad Arilinn», disse Damon, «e questo mette fine alla cosa.» E ripeté, con maggiore veemenza: «Nessuno può sopportare l'addestramento di Arilinn!»
«Ripeto che sono parole assurde», insistette Cleindori, «perché Callista l'ha sopportato, e così la Nobile Hilary di Syrtis; e Margwenn di Thendara, Leomilda di Neskaya, Janine di Storn, Leonie stessa e novecento Guardiani prima di lei, come si suole dire. Quel che hanno sopportato loro, posso sopportarlo anch'io, se è necessario.»
Fissò il padre, con grande serietà. «Mi hai detto molte volte, fin da quando ero bambina, che il Guardiano è responsabile soltanto davanti alla propria coscienza. E che questo non vale solo per i Guardiani, ma anche per le altre persone in generale. E io, padre, sento che il mio destino è quello di diventare Guardiano.»
«Potrai essere il nostro Guardiano quando sarai più grande», propose Damon, «senza dover sopportare i tormenti che dovresti sopportare ad Arilinn.»
«Oh!» Cleindori si alzò, irritata, e prese a passeggiare avanti e indietro. «Sei mio padre, e mi consideri sempre una bambina! Padre, credi che non sappia che, senza le Torri, il nostro mondo finirebbe nella barbarie? Non ho mai viaggiato molto, ma sono stata a Thendara, e ho visto le navi dei terrestri, e so che non ci siamo piegati al loro impero solo perché le Torri ci forniscono quello che ci occorre, grazie alla nostra antica scienza delle matrici. Se le Torri si fermassero, Darkover cadrebbe nelle mani dell'Impero Terrestre come un frutto maturo, perché la gente invocherebbe a gran voce la tecnologia e il commercio dell'Impero!»
Damon rispose, tranquillamente: «Non credo che sia inevitabile. Il mio migliore amico era un terrestre, tuo zio Anndra. Ma io lavoro proprio per questo, perché il giorno in cui cadranno le Torri ci sia un numero così alto di persone dotate di Potere da rendere Darkover indipendente, e non schiavo dei terrestri. E ti assicuro che arriverà quel giorno, e le Torri saranno vuote, e solo gli uccelli ci faranno il nido!»
«Cugino!» protestò Kennard, affrettandosi a fare uno scongiuro. «Non parlate così!»
«Non è un discorso gradevole», rispose Damon, «ma è vero. Ogni anno, diminuisce il numero dei nostri figli disposti a sopportare l'addestramento delle Torri. Una volta, Leonie si è lamentata con me perché aveva avuto sotto di sé sei ragazze, ma solo una di esse aveva terminato l'addestramento di Guardiano: la Sapiente Hilary, che però si ammalò e dovette allontanarsi da Arilinn.
«Tre delle Torri», proseguì, «e questo, Cleindori, Janine non sarebbe disposta a dirtelo, ma io che ho l'addestramento di Arilinn lo so, sono costrette a lavorare con un cerchio di meccanici perché non hanno una Guardiana, visto che le leggi impongono loro di tenerla isolata dal mondo, come simbolo di verginità. Ci sono cento e più donne, nei Regni, che potrebbero fare il Guardiano, ma che non accettano perché non vogliono diventare, anziché donne, semplici macchine per la trasmissione di energie. Per questo dico che le Torri finiranno. E una volta che saranno finite, e di loro rimarranno solo i gusci vuoti, come monumento alla follia dei Comyn, il Potere e le pietre matrici saranno usati come si deve, cioè per fare scienza e non magia. Per tutta la vita ho cercato di raggiungere questo scopo, Cleindori.»
«Sì, ma non per abbattere le Torri, cugino!» protestò Kennard, sconvolto.
«No. Non per quello. Ma per essere presenti in quel momento, in modo che la nostra scienza del Potere mentale non muoia per assenza di Torri che se ne occupino.»
Cleindori si fermò accanto a lui e gli appoggiò la mano sulla spalla. «Padre», disse, «per questo ti onoro. Ma il tuo lavoro è troppo lento, perché vi chiamano banditi, rinnegati e cose ancora peggiori. Perciò è importante che i giovani come me, come la mia sorellastra Cassilda e Kennard...»
Damon esclamò, stupito: «Anche Cassilda vuole andare ad Arilinn? Farà morire di crepacuore Callista!» Cassilda era figlia di Callista e aveva quattro anni più di Cleindori.
«Ormai è troppo vecchia per avere bisogno del consenso», rispose Cleindori. «Padre, le Torri devono sopravvivere finché non sarà giunto il momento, e la mia coscienza mi impone di essere la Guardiana di Arilinn.» Gli tese la mano. «No, padre, ascoltami. So che tu non sei ambizioso; hai rinunciato al posto di comandante delle Guardie, che ti avrebbe portato a essere l'uomo più importante di Thendara. Ma io non sono così. Se il mio Potere è così forte come mi ha detto la Signora di Arilinn, voglio essere Guardiano per poter fare qualcosa di utile con le mie doti, e non solo per curare i contadini e per insegnare ai loro figli! Padre, io voglio essere la Guardiana di Arilinn!»
«Ti vuoi chiudere nella stessa prigione da cui Callista ha faticato a uscire!» ribatté Damon, con amarezza.
«La cosa riguardava lei»,rispose Cleindori, «e non me! Ma, ascoltami, padre», disse con grande serietà, inginocchiandosi davanti a lui. «Mi hai sempre detto che è Arilinn a stabilire le leggi sull'impiego del Potere nei Regni di Darkover, a parte voi pochi che sfidate Arilinn.»
«Sì, eccetto forse qualche gruppo degli Hellers e di Aldaran, di cui non siamo al corrente», le ricordò Damon.
«Allora», continuò Cleindori, «se io andassi ad Arilinn e diventassi Guardiano seguendo gli insegnamenti di quella Torre, che secondo loro sono quelli ortodossi... una volta divenuta Guardiano, potrei cambiare quelle leggi. Se è il Guardiano di Arilinn a stabilire le leggi valide per tutte le Torri, allora, una volta divenuta Guardiano, potrei cambiarle. Potrei dichiarare la verità: che sono leggi crudeli e inumane; e, dato che avrei superato quell'insegnamento io stessa, nessuno potrebbe dire che denigro una cosa che non sono riuscita a raggiungere. Io potrei cambiare quelle leggi terribili e abbattere il sistema di Arilinn. E quando le Torri rinunceranno a chiudere virtualmente in prigione chi vi lavora, i giovani di ogni Regno saranno lieti di presentarsi alle Torri, e l'antica scienza delle matrici ritornerà a vivere. Ma quelle leggi non cambieranno mai... a meno che non sia la Guardiana di Arilinn a cambiarle!»
Damon non poté che annuire. Infatti, era l'unico modo per abolire le leggi crudeK di Arilinn: che fosse la stessa Guardiana di Arilinn ad abolirle. Lui aveva fatto del suo meglio, ma era un isolato, un reietto; dall'esterno di Arilinn non si poteva fare niente. E lui non era riuscito a combinare granché: Damon sapeva perfettamente di essere riuscito a fare ben poco.
«Padre, è destino», disse Cleindori, con voce tremante. «Tutto quel che Callista ha sofferto, tutto quello che hai sofferto tu, forse serviva a questo: perché io ritornassi laggiù a liberare gli altri. Adesso che tu hai dimostrato che possono essere liberati.»
«Hai ragione», ammise lui, lentamente. «Per sconfiggere la legge di Arilinn occorre che sia la stessa Guardiana di Arilinn a rifiutarla. Ma... oh, Cleindori, non tu!» Abbracciò la figlia, disperato. «Non tu, cara!»
Lei si liberò dell'abbraccio; e Damon, per un istante, ebbe l'impressione che fosse già alta e distaccata, piena della forza della Guardiana, vestita della maestà di Arilinn. Cleindori disse: «Padre, caro padre, non puoi proibirmelo. Devo risponderne solo alla mia coscienza. Quante volte hai detto a tutti noi, compreso mio padre adottivo Valdir, che la coscienza è il nostro solo giudice? Permettimi di finire il lavoro che tu stesso hai cominciato con la Torre Proibita. Altrimenti, tutto finirebbe con te: un piccolo gruppo di rinnegati e le loro eresie dimenticate da tutti. Ma io, invece, posso portarle ad Arilinn, e poi in tutti i Regni, perché la Guardiana di Arilinn fa le leggi per tutte le Torri. È il mio destino, padre. Devo andare ad Arilinn».
Damon chinò la testa, con riluttanza. Non sapeva più come opporsi a tanta sicurezza. Gli parve che le mura di Arilinn si stessero già serrando su di lei. Fu così che si separarono; il destino li avrebbe fatti incontrare nuovamente solo poco prima della morte di Damon.
CAPITOLO 1
IL TERRESTRE
Per quanto ti sforzi, pensava Kerwin, facendo un bilancio delle proprie ricerche, la situazione è sempre quella.
Sei un orfano senza patria. Per quel che ne sai, potresti essere nato su una delle grandi navi dell'Impero Terrestre, quelle che fanno la spola tra i pianeti. Non hai mai saputo il tuo luogo di nascita né il nome dei tuoi genitori; la sola casa che hai conosciuto è l'orfanotrofio terrestre, ai margini del porto di Thendara, dove hai conosciuto la solitudine. Prima di allora, tutto quel che ricordi sono colori e luci, e immagini confuse di persone e di luoghi, che scomparivano quando cercavi di ricordarle, o incubi che a volte ti facevano gridare per il terrore finché non ti accorgevi di essere al sicuro, nel dormitorio.
Gli altri bambini erano i figli abbandonati dell'arrogante e mobile razza dei terrestri, e anche Kerwin era uno di loro e portava uno dei loro nomi. Ma all'esterno delle mura dell'orfanotrofio c'era il mondo buio e bellissimo che Kerwin aveva visto nei propri sogni, e lui sapeva di essere diverso, di appartenere a quel mondo, a quel cielo e a quel sole, e non al bianco, asettico mondo della Città Commerciale Terrestre.
Kerwin sapeva di essere diverso; non aveva bisogno che glielo dicessero gli altri, come del resto facevano sempre. E non a parole, ma in cento altri modi crudeli. Ma anche lui, dal canto suo, si sentiva diverso fino al midollo, istintivamente. E poi c'erano i sogni.
Però, con il passare del tempo, i sogni erano svaniti; prima erano divenuti ricordi di sogni, poi ricordi di ricordi. Adesso, Kerwin sapeva soltanto che prima era in grado di ricordare molto di più.
Aveva imparato a non fare domande sui propri genitori, ma non aveva mai smesso di pensare a loro. Oh, quanti progetti aveva fatto, quanti piani aveva studiato, per procurarsi informazioni. E non appena era stato in grado di sopportare l'accelerazione di una nave in partenza, l'avevano riempito di iniezioni e l'avevano messo su una delle navi, come un pacco da recapitare.
«Vai a casa!» avevano detto gli altri ragazzi, con invidia, ma anche con timore. Però, Kerwin non si era lasciato ingannare dai termini, e sapeva perfettamente di essere mandato in esilio. E quando si era svegliato, con la sensazione che fosse passato molto tempo, la nave si apprestava a scendere sulla Terra, dove una coppia anziana attendeva il nipote che non aveva mai visto.
Gli dissero che aveva dodici anni e lo chiamarono Jefferson Andrew Kerwin junior: lo stesso nome con cui lo chiamavano all'orfanotrofio, e perciò Kerwin non fece commenti. Avevano la pelle più scura della sua e gli occhi castani: le sue nutrici di Darkover li chiamavano "occhi da animale". Ma Kerwin sapeva che erano nati sotto un sole diverso dal suo e ne conosceva le caratteristiche: erano le stesse luci violente della Città Terrestre di Darkover, che a fissarle facevano male agli occhi.
Così, Kerwin si era prestato al gioco, e aveva accettato la pretesa che quei due vecchi fossero i suoi nonni paterni. Gli avevano mostrato una fotografia di Jefferson Andrew Kerwin alla sua stessa età, tredici anni, poco prima che entrasse all'Accademia Navale, vari decenni addietro. Gli avevano dato la sua stanza e lo avevano iscritto alla stessa scuola. Erano stati gentili con lui, e avevano continuato a fargli capire, con le parole e con i gesti, che anche se lui ne aveva preso il posto, non era realmente il loro figlio, quello che li aveva abbandonati per la vita movimentata dell'ufficiale di Marina.
E non avevano mai risposto alle sue domande sulla madre. Non sarebbero stati in grado di farlo: non sapevano nulla di lei, né lo volevano sapere, perché la cosa non rivestiva alcun interesse per loro. Lui era Jefferson Andrew Kerwin, terrestre, e il resto non contava.
Se fosse successo qualche anno prima, forse sarebbe stato sufficiente. Kerwin era ansioso di trovare un proprio posto, e l'amore di quei vecchi, che volevano trovare in lui il figlio che li aveva lasciati, avrebbe potuto trasformarlo in terrestre.
Ma il cielo della Terra era di un azzurro freddo e intenso, e le sue montagne erano di un verde sgradevole; non c'erano occhiali affumicati che potessero riparare gli occhi dal suo sole troppo bianco, e la gente, nel vedere quelle lenti scure, pensava che avesse qualcosa da nascondere. Kerwin parlava perfettamente la lingua terrestre: gliel'avevano insegnata all'orfanotrofio, naturalmente, e poteva passare per un abitante del pianeta. Sentiva la nostalgia del freddo di Darkover, dei venti che scendevano dalle montagne e del profilo seghettato dei monti che si scorgevano all'orizzonte; gli mancava il grande sole rosso, basso sull'orizzonte.
I nonni non volevano che pensasse a Darkover, e una volta che Kerwin aveva messo da parte i soldi per comprare una serie di diapositive scattate sui pianeti ai confini dell'Impero, gliele avevano nascoste. Lui doveva pensare solo alla Terra, gli avevano detto.
Ma Kerwin non era disposto a farlo, e non appena raggiunta l'età legale, se n'era andato. Sapeva di spezzare il cuore ai due poveri vecchi, e che questo non era giusto perché l'avevano sempre trattato con gentilezza, o con quella che credevano tale. Ma lui se n'era andato lo stesso, per non farsi soffocare. Infatti aveva capito, anche se non l'avevano capito i nonni, che Jeff Kerwin jr non era il ragazzo a cui volevano bene. Anzi, probabilmente, non avevano voluto bene neppure al primo Jeff Kerwin, suo padre, che appunto per quel motivo li aveva lasciati. I due vecchi, in realtà, amavano solo un'immagine che si erano creati essi stessi e che chiamavano figlio; forse, si era detto Kerwin, sarebbero stati più felici se si fossero limitati ai ricordi e non avessero avuto tra i i piedi alcun ragazzo che distruggesse l'immagine del loro figlio perfetto.
Dapprima aveva lavorato sulla Terra, come impiegato del Servizio Spaziale, e aveva sopportato in silenzio le battute degli arroganti terrestri sul suo modo di parlare o sulle sue abitudini. Poi era passato al servizio dell'Impero, a bordo delle navi che raggiungevano i lontani pianeti dei suoi sogni. E aveva visto l'odiato sole della Terra rimpicciolire fino a trasformarsi in una normale stella, persa nel buio, mentre lui si avvicinava di un passo alla realizzazione delle sue aspirazioni.
Il pianeta da lui raggiunto non era ancora Darkover. Tuttavia si trattava del mondo di un sole rosso che non gli feriva gli occhi: un mondo di tempeste e di gas mefitici, dove le donne restavano chiuse dietro alte mura e in giro non si vedevano bambini. Dopo un anno passato laggiù, la sua successiva destinazione era stata un simpatico mondo dove gli uomini portavano il pugnale al fianco e le donne si mettevano orecchini fatti di campanelle d'argento, che tintinnavano a ogni passo, in modo stranamente seducente. Quel pianeta gli era piaciuto. Aveva preso parte a un buon numero di zuffe, e aveva conosciuto un buon numero di donne. Infatti, dietro il tranquillo impiegato dell'Impero, si nascondeva uno scavezzacollo, che in quel mondo finì per affiorare. Laggiù, Kerwin aveva preso l'abitudine di portare con sé un pugnale, e la presenza dell'arma gli aveva dato uno strano senso di appagamento, come se fino a quel momento gli fosse mancato qualcosa. Ne aveva discusso con lo psicologo, e aveva ascoltato le sue teorie sui segreti timori di impotenza sessuale e sulla loro compensazione mediante simboli fallici e fantasie di onnipotenza; aveva ascoltato senza fare commenti e non si era curato di quelle interpretazioni, perché gli erano parse un'assurdità. Lo psicologo, comunque, gli aveva fatto una domanda rivelatrice.
«Lei è cresciuto su Cottman Quarto, vero, Kerwin?» aveva chiesto.
«Sì, nell'orfanotrofio della Città Terrestre.»
«Non è uno dei mondi dove gli adulti girano armati?» aveva continuato lo psicologo. «Non sono un antropologo, ma se lei ha visto che gli uomini li portavano...»
Kerwin aveva ammesso che forse era così e non aveva aggiunto altro, ma aveva continuato a portare il pugnale, almeno nelle ore di libertà, e un paio di volte l'aveva anche usato, dimostrando a se stesso, con piena soddisfazione, di saperci fare, quando ce n'era bisogno.
Quel pianeta gli piaceva. Si sarebbe potuto stabilire laggiù, ed essere felice. Ma c'era qualcosa che lo spingeva altrove, una specie di inquietudine, e quando l'ambasciatore era morto e il suo successore si era portato i propri aiutanti, Kerwin aveva approfittato della cosa per farsi trasferire.
A quel punto, i suoi anni di tirocinio erano finiti. In precedenza andava dove lo mandavano, ma ora gli avevano chiesto, entro certi limiti, dove preferisse recarsi. E lui aveva risposto, senza esitare:
«Darkover.» E subito si era corretto: «Cottman Quarto».
L'uomo dell'Ufficio Personale era rimasto a bocca aperta. «Dio del Cielo», aveva poi detto, «come si può pensare di andare laggiù?»
«Perché, non c'è posto?» aveva chiesto Kerwin, già rassegnato a rinunciare.
«No, i posti ci sono. Non troviamo mai volontari per quel pianeta. Ma lo sa, che razza di posto è? Freddo come il peccato, tra le altre cose, e barbarico... gran parte del pianeta è vietata ai terrestri, e si corrono gravi rischi anche soltanto a uscire dalla Città Terrestre. Non sono mai stato laggiù di persona, ma il pianeta, a quel che mi hanno detto, è sempre in subbuglio. Oltre a questo, non abbiamo rapporti commerciali con i darkovani.»
«No? L'astroporto di Thendara è uno dei più grandi del Servizio Spaziale, a quanto so.»
«Certo», aveva spiegato l'uomo. «È collocato tra il braccio superiore e quello inferiore della Galassia, e perciò siamo costretti a mantenervi una quantità di personale sufficiente a una grossa stazione. Thendara è una delle principali stazioni di trasferimento del commercio interplanetario. Ma è un posto infernale, e una volta che lei si trovasse laggiù e volesse andarsene, potrebbero passare degli anni prima di poterle mandare un sostituto. Senta», aggiunse, «lei è un elemento troppo valido per finire laggiù. A Rigel 9 cercano personale, e lassù potrebbe fare rapidamente carriera... magari fino al grado di console, se preferisse il servizio diplomatico. Perché sprecare il tempo su una palla di roccia gelida, lontano da tutti i pianeti civili?»
Kerwin, a quel punto, avrebbe già dovuto prevedere la sua reazione, ma si era detto: Chissà, forse lo vuole sapere davvero. Perciò, gliel'aveva detto.
«Sono nato su Darkover.»
«Oh, uno di quelli. Capisco.» L'uomo aveva fatto una smorfia, e Kerwin aveva provato un forte desiderio di dargli un pugno. Ma non l'aveva fatto. Si era limitato a guardarlo mentre apponeva vari timbri sulla sua domanda di trasferimento, e aveva capito che se mai avesse avuto intenzione di entrare nei corpi diplomatici, quei timbri gliene avevano tolta ogni possibilità; ma a lui non importava. E poi era salito su un'altra nave, e con crescente agitazione aveva continuato a recarsi nella sala telescopica, cercando di riconoscere una macchiolina rossa che alla fine era diventata una stella abbagliante. Infine, dopo un tempo che sembrava infinito, la nave era scesa in direzione di un pianeta coperto di ghiaccio, un gioiello sullo sfondo nero dello spazio.
Kerwin era di nuovo a casa.
CAPITOLO 2
LA PIETRA MATRICE
L'astronave Corona del Sud atterrò a mezzogiorno in punto; poco più tardi, Jeff Kerwin uscì dal portello stagno e trasse un profondo respiro. Chissà perché, aveva avuto l'impressione che la stessa aria del pianeta dovesse avere un profumo diverso, più ricco, strano e insieme familiare.
Ma era solo aria. Aveva un buon profumo, ma dopo le settimane passate a respirare l'aria riciclata all'interno dell'astronave, qualsiasi aria avrebbe avuto un buon profumo. La respirò di nuovo, cercando l'elusivo ricordo della sua fragranza. Era fresca e frizzante, con un leggero aroma di polline e di pulviscolo; ma vi dominavano gli impersonali odori chimici di tutti gli spazioporti: cemento, asfalto. Il pungente odore d'ozono delle valvole di scarico.
Tanto valeva restarsene sulla Terra! Un altro spazioporto! pensò. Be', che cosa ti aspettavi? si disse poi. Hai pensato così tanto al tuo ritorno su Darkover, che per accontentarti dovrebbe venire ad accoglierti l'intera città, con la fanfara!
Fece un passo indietro, per lasciar passare un gruppo di guardie della Polizia Spaziale: uomini alti, con giubbe e stivali di cuoio nero, stelle sulle maniche, pistole alla cintura, nascoste nelle fondine. Il sole era ancora allo zenit: un sole immenso e arancione. L'orizzonte era chiuso tra alte montagne e Kerwin cercò in mezzo alle cime qualche punto di riferimento a lui noto. Stava ancora camminando, con gli occhi fissi sull'orizzonte, quando inciampò in una cassa; qualcuno, dietro di lui, disse: «Guardi le stelle, Testa Rossa?»
Kerwin ritornò alla realtà dello spazioporto. «Ho visto fin troppe stelle, in questi ultimi tempi», rispose. «Pensavo che l'aria ha un buon profumo.»
L'uomo rise. «C'è almeno questa consolazione. Ho trascorso un turno in un mondo dove l'aria sapeva di zolfo. Non c'era nessun pericolo, dicevano i medici, ma si aveva sempre l'impressione che ci fosse da qualche parte un uovo marcio.»
Si accostò a Kerwin, sulla piattaforma di cemento. «Che cosa si prova, a fare ritorno a casa?»
«Non lo so ancora», rispose Kerwin, guardandolo con una sorta di affetto. Johnny Ellers era un uomo massiccio e di bassa statura, con i capelli grigi, con l'uniforme nera delle guardie. Un veterano dello spazio: sulla manica aveva ventiquattro stelle: una stella per ogni mondo dove aveva prestato servizio. Kerwin, che fino ad allora aveva raccolto solo due stelle, aveva scoperto in Ellers una miniera di informazioni su tutti i pianeti e su tutti gli argomenti.
«È meglio allontanarci», disse Ellers. Le squadre degli addetti alla manutenzione stavano già sciamando sulla nave, che entro poche ore sarebbe ripartita: le posizioni planetarie favorevoli non aspettano. Lo spazioporto era già pieno di camion, di carrelli elevatori, di autocisterne. Kerwin si guardò attorno, per orientarsi. Al di là dello spazioporto si scorgeva la Città Terrestre, il grattacielo del Quartier Generale Terrestre... e Darkover. Sentì il desiderio di correre in quella direzione, ma si controllò e si diresse con Ellers verso la fila di persone che attendevano davanti all'Ufficio Immigrazione. Diede l'impronta del pollice e firmò una scheda, in cambio ricevette un documento di identità; poi lasciò lo sportello.
«Dove andiamo?» gli chiese Ellers, ricongiungendosi a lui.
«Non lo so», rispose Kerwin. «Forse dovrei presentarmi a rapporto al Quartier Generale per farmi dare le consegne.»
Oltre a quello di scendere sul pianeta, non aveva fatto progetti, e non voleva lasciarsi trascinare da Ellers. Per quanto gli fosse simpatico, avrebbe preferito fare la conoscenza di Darkover da solo, e non in compagnia.
Ellers rise. «A rapporto? Diamine, non ti credevo così ingenuo. Non sei un pivellino alla sua prima destinazione, ancora stupito dal fatto di trovarsi su un mondo sconosciuto. Domattina sarà sufficiente per le formalità burocratiche. Per questa notte...» indicò i cancelli dello spazioporto, «...vino, donne e musica, non necessariamente in quest'ordine.»
Poi, vedendo che Kerwin esitava, Ellers insistette. «Vieni con me! Conosco la Città Terrestre come le mie tasche. Devi procurarti i vestiti, e io conosco i negozi. Se vai a comprare in qualche trappola per turisti, rischi di spendere sei mesi di paga senza neppure accorgertene!»
Questo era vero. Il trasporto interstellare era ancora troppo costoso per portare con sé i propri beni personali. Anziché pagare i costosi sovrapprezzi, era più conveniente vendere la roba vecchia e ricomprarla una volta giunti a destinazione. Perciò, ogni spazioporto era sempre circondato da una fascia di negozi di tutti i tipi, buoni, cattivi e indifferenti, che andavano dalle boutique di lusso alla bottega del rigattiere.
«E conosco anche i locali migliori. Non puoi dire di saper vivere finché non hai assaggiato il firi di Darkover. Devi sapere che sulle montagne raccontano molte storie sull'effetto di questo liquore, specialmente sulle donne. Una volta, ricordo...»
Kerwin lasciò parlare Ellers, ma non lo ascoltò, perché la sua storia cominciava a prendere una piega familiare. A dare retta a Ellers, aveva avuto così tante donne, in così tanti mondi, che non si capiva dove avesse trovato il tempo di fare altro. Le eroine delle sue storie coprivano tutte le categorie sociali, dalle comuni siriane alle principesse di Arturo.
Il cancello dello spazioporto si apriva su una grande piazza, con al centro un monumento e un piccolo parco. Nel guardare gli alberi, Kerwin sentì un nodo alla gola.
Un tempo, lui conosceva bene la Città Terrestre, e da allora si era ingrandita... e si era anche rimpicciolita. Il grattacielo del Quartier Generale Terrestre, che un tempo colpiva per la sua mole, adesso era un edificio come tanti altri. Il cerchio di negozi intorno alla piazza era più fitto, e Kerwin non ricordava di avere mai visto, da bambino, il grande hotel dell'astroporto. Con un sospiro, cercò di ricordare che cosa ci fosse al suo posto.
Attraversarono la piazza e svoltarono in una strada pavimentata di grandi blocchi di pietra: talmente grandi che Kerwin non capì come avessero fatto a posarli. Le strade erano vuote: probabilmente, gran parte dei terrestri era allo spazioporto e a quell'ora era troppo presto perché i darkovani uscissero di casa. Ma la vera città era lontana, invisibile. Kerwin trasse un altro sospiro e seguì Ellers verso uno dei negozi.
«Laggiù possiamo trovare vestiti a prezzo onesto.»
Era un negozio darkovano, e questo significava che la merce traboccava fin sulla strada; .tuttavia era stata fatta una concessione anche alle abitudini dei terrestri, perché una parte della merce in vendita era esposta sui banchi. Quando entrò nel negozio, Kerwin riconobbe un odore a lui familiare: l'incenso che si bruciava in ogni casa di Darkover, dalle catapecchie al palazzo del Signore Hastur. Nell'orfanotrofio non veniva usato, almeno ufficialmente, ma gran parte delle inservienti erano darkovane, e il fumo impregnava i loro abiti e i loro capelli. Ellers storse il naso ed emise un brontolio di disgusto, ma Kerwin sorrise. Aveva ritrovato qualcosa di conosciuto in un mondo irriconoscibile.
Il negoziante — un ometto grinzoso e vestito di giallo, camicia e calzoni — si voltò e mormorò una vuota formuletta: «S'dia shaya». Significava "mi rendete onore", e Kerwin gli rispose con un'altra formula altrettanto vuota; Ellers rimase a bocca aperta.
«Non sapevo che parlassi la lingua! Mi avevi detto di essere partito quando eri ancora bambino.»
«Parlo solo il dialetto della città», rispose Kerwin. Poi, nel vedere che il negoziante andava a prendere un variopinto assortimento di giubbe, panciotti di seta e mantelli, gli disse: «No, non quelle cose. Vestiti terrestri».
Tuttavia, si limitò a scegliere un po' biancheria e di ricambi, perché non sapeva ancora come fosse il clima. Vide alcuni parka pesanti, da montagna, imbottiti di fibre sintetiche e garantiti fino a 30 gradi sotto zero, ma non li acquistò, anche se Ellers si era già affrettato a indossarne uno. Neppure negli Hellers faceva così freddo, e a Thendara, in quella stagione, si andava in giro in maniche di camicia. Poi, mentre il negoziante faceva i pacchetti, vide che Ellers era andato a curiosare fra la merce di un altro banco.
«Che vestito è questo, Kerwin? Non ho mai visto nessuno vestito in questo modo. È un costume locale?»
Kerwin fece una smorfia. "Costume locale" era una di quelle semplificazioni che piacevano tanto ai terrestri, come "lingua di Darkover". Sul pianeta c'erano almeno nove lingue diverse — lui ne parlava una, e conosceva qualche frase di un paio d'altre — e i costumi che si indossavano sul pianeta variavano enormemente, dalle sete della pianura alle pelli non conciate che si portavano sulle montagne. Si affrettò ad avvicinarsi all'amico, che guardava tra un mucchio di abiti usati: in prevalenza giubbe e calzoni da città. Tuttavia, Kerwin vide subito che cosa avesse attirato l'occhio di Ellers: una veste molto bella, giallo-verde, ricamata, che aveva qualcosa di familiare. La sollevò e vide che aveva anche il cappuccio.
«È un mantello da viaggio», spiegò. «Li portano sui Monti Kilghard; dai ricami dev'essere appartenuto a un nobile. Probabilmente sono i colori del suo casato, ma non so quale sia, e non so come sia finito qui. Sono abiti caldi e comodi, soprattutto per andare a cavallo, ma già all'epoca in cui ero ragazzo era un tipo di abito che tendeva a scomparire, qui in città; abiti come questi...» indicò il parka di tessuto sintetico acquistato da Ellers, «...costavano meno ed erano altrettanto caldi. Questi mantelli sono fatti a mano, tinti con colori vegetali e poi ricamati dalle donne di casa.»
Prese dalle mani di Ellers il mantello. Non era di tessuto, ma di cuoio sottile e robusto, foderato di pelo, morbido come lana e ricamato con fili metallici.
«Sembra fatto per un principe», mormorò Ellers, a bassa voce. «Di che bestia sarà?»
Il negoziante, fiutato l'affare, iniziò a descrivere la rarità di quel cuoio, ma Kerwin rise e alzò la mano per interromperlo.
«È semplice daino», disse. «Li allevano come le pecore. Se fosse di marl selvaggio, allora sarebbe davvero adatto a un principe. Così com'è, invece, poteva essere di un gentiluomo di pochi mezzi, appartenente al seguito di qualche nobile... un gentiluomo con una moglie o una figlia molto abile nel ricamo, e disposta a perdere un anno a ricamargli il mantello.»
«...Il ricamo, un mantello adatto a un Comyn, la bellezza del cuoio...» diceva il negoziante.
«Comunque, tiene caldo», disse Kerwin, drappeggiandoselo sulle spalle. Era molto soffice. Ellers lo guardò con stupore.
«Buon Dio», esclamò, «ti stai già convertendo alla moda indigena? Non penserai di indossarlo nella Città Terrestre, spero.»
Kerwin rise. «No, certo. Pensavo che potrei mettermelo per stare in casa. Se i quartieri degli scapoli sono come quelli dell'ultimo posto dove ho prestato servizio, il riscaldamento viene tenuto molto basso, a meno che non si voglia pagare il supplemento. E qui, d'inverno, fa freddo. Adesso si sta bene e fa caldo, ma...»
Ellers rabbrividì e disse, con aria desolata: «Se per te fa caldo, preferirei non dover mai provare quello che giudichi "freddo". Figliolo, tu devi avere nelle vene liquido anticongelante. Io ho i brividi! Oh, be', non tutti i gusti sono uguali», concluse, scuotendo la testa. «Ma non vorrai spendere un mese di paga per comprarti quel mantello?»
«Preferirei di no», rispose Kerwin, a bassa voce, «ma finirà così, se continuerai a parlare e non mi lascerai contrattare sul prezzo.»
Alla fine, pagò un po' più del preventivato, e, nel tirare fuori il denaro, si disse di avere fatto una sciocchezza. Ma, per qualche motivo che non sarebbe riuscito a definire, voleva quel mantello: era la prima cosa che avesse richiamato la sua attenzione dal suo arrivo a Darkover. Lo voleva, e alla fine lo ebbe, a un prezzo abbastanza alto, ma abbordabile. Però, mentre discuteva con il venditore, ebbe l'impressione che l'uomo contrattasse a malincuore con lui: infatti glielo cedette quasi subito. Kerwin capì, anche se forse Ellers non se ne accorse, di averlo pagato un po' meno del suo valore reale. Anzi, molto meno, se la sua impressione era giusta.
«Con quei soldi», mormorò Ellers, mentre uscivano, «avresti potuto comprarti da bere per un anno.»
Kerwin rise. «Non piangere. Su un pianeta come questo, un vestito di pelle non è un lusso, ma un buon investimento. E mi resta ancora qualcosa per pagarti da bere. Dove possiamo andare?»
Finirono in una mescita all'altro estremo della zona; non c'erano turisti, ma in mezzo ai darkovani seduti al banco e ai tavoli si scorgeva anche qualche operaio dell'astroporto. Comunque, tutti parevano dedicare la propria attenzione alle bevande, alle chiacchiere e a giocare con piccole tessere simili a domino o con piccoli prismi di cristallo molato.
Alcuni darkovani alzarono gli occhi al passaggio dei due terrestri che si facevano strada verso uno dei tavoli liberi. Ellers tornò a sorridere non appena vide dirigersi verso di loro una cameriera, grassoccia e dai capelli neri. Le diede una manata sul sedere, ordinò una caraffa di vino e stese sul tavolo il mantello darkovano, per sentirne l'imbottitura, disse, e attaccò a parlare di una certa coperta imbottita che gli aveva reso un buon servizio su un gelido pianeta della stella Lira.
«Lassù, la notte dura sette giorni, e la gente chiude tutto finché non ritorna il sole, a sciogliere il ghiaccio. Ma ti assicuro, io e quella ragazza ci siamo ficcati sotto la coperta e per sette giorni non abbiamo più messo fuori neppure il naso...»
Kerwin, intento ad assaporare il vino, perse il filo della storia... non che la cosa importasse, perché tutte le storie di Ellers si assomigliavano. Un uomo che sedeva da solo, in disparte, davanti a un boccale per metà vuoto, alzò gli occhi, incrociò lo sguardo con quello di Kerwin e si alzò in piedi di scatto, così bruscamente da rovesciare la sedia. Fece per avvicinarsi al tavolo dei due terrestri; poi vide Ellers, che fino a quel momento gli aveva girato la schiena, e si fermò, con l'aria sorpresa. In quello stesso istante, Ellers, che era arrivato alla fine della storia, si girò verso di lui e lo riconobbe.
«Ragan, vecchio imbroglione! C'era da scommetterci, che ti avrei ritrovato quaggiù! Da quanto è, che non ci vediamo? Vieni a bere con me!»
Ragan, però, esitava ad avvicinarsi. Lanciò un'altra occhiata in direzione di Kerwin.
«Vieni», lo esortò Ellers. «Ti devo presentare un mio vecchio amico, Jeff Kerwin.»
Allora, finalmente, Ragan si decise ad accomodarsi al loro tavolo. Kerwin non riuscì ad attribuirgli una precisa identità. Era basso di statura, minuto, con la pelle rugosa di chi vive all'aria aperta, le mani callose; poteva essere un darkovano dei monti, ma di taglia molto inferiore alla media, oppure un terrestre che indossava abiti darkovani, anche se si trattava semplicemente di stivali e giubba. Ma parlava la lingua dei terrestri senza alcun accento particolare; chiese a Ellers notizie del suo viaggio, e quando la cameriera portò loro un altro bicchiere di vino, insistette per pagare. Tuttavia, quando gli pareva di non essere osservato, continuava a guardare Kerwin, con la coda dell'occhio.
Alla fine, questi disse: «Senta, mi spieghi. Mi guardava come se le ricordassi una persona a lei nota, prima che Ellers la vedesse».
«Già», rispose Ragan. «Non sapevo che Ellers fosse già rientrato. Poi l'ho visto al suo tavolo, e mi sono accorto che indossava...» Indicò gli abiti terrestri di Kerwin. «Così, ho capito che lei non poteva essere la persona per cui l'avevo presa. Noi non ci conosciamo, vero?» aggiunse, aggrottando la fronte.
«Mi sembra di no», disse Kerwin, guardandolo e chiedendosi se non potesse essere uno dei suoi vecchi compagni dell'orfanotrofio. Ma, da allora, erano passati almeno dieci o dodici anni terrestri: un periodo più che sufficiente a cancellare quel tipo di ricordi. Kerwin, inoltre, non si ricordava di nessuno che si chiamasse Ragan, anche se ciò, naturalmente, non era certo una prova.
«Lei, però, non è terrestre, vero?» chiese Ragan.
A Kerwin tornò in mente la smorfia dell'impiegato dell'Ufficio Personale («Oh, uno di quelli. Capisco»), ma cercò di non pensarci. «Mio padre era terrestre», spiegò. «Io sono nato qui, e sono cresciuto all'Orfanotrofio Terrestre. Ma ho lasciato il pianeta quando ero ancora un ragazzo.»
«Allora, possiamo esserci visti laggiù», annuì Ragan. «Anch'io ci sono stato per vari anni. Adesso faccio l'intermediario per la gente della Città Terrestre quando ha bisogno dei darkovani: guide, carovanieri, quel genere di persone. Organizzo carovane per spedizioni sulle montagne, o per le altre città, dovunque ce ne sia bisogno.»
Kerwin non era ancora riuscito a capire se l'uomo fosse nativo del pianeta. Alla fine, glielo chiese. «Lei è di Darkover?»
Ma Ragan si limitò a scrollare le spalle. Con grande amarezza, disse: «Chi lo sa?» E aggiunse: «E che importanza può avere?»
Poi sollevò il bicchiere e bevve, subito imitato da Kerwin, il quale cominciava ad avere la testa leggera e sentiva che presto si sarebbe ubriacato. Non era mai stato un forte bevitore, e il vino darkovano — che lui, naturalmente, non aveva mai assaggiato da bambino — aveva una gradazione piuttosto alta, come c'era da aspettarsi su un mondo così freddo. Tuttavia, Kerwin sentiva che l'ubriachezza non aveva importanza. Ragan lo stava fissando, di nuovo, ma anche questo non importava.
Kerwin pensò: Forse abbiamo molte cose in comune. Mia madre era probabilmente darkovana; se fosse stata terrestre, ci sarebbe qualche documento. Poteva essere una donna di qualsiasi genere. Mio padre era nei Servizi Spaziali; questa è la sola cosa certa. Ma, a parte ciò, chi sono io? E come ha fatto ad avere un figlio per metà darkovano?
«Almeno, nel suo caso, si è preoccupato di farle avere la cittadinanza dell'Impero», disse Ragan, e Jeff lo guardò con stupore, perché non si era accorto di avere parlato a voce alta. «Il mio non ha fatto neppure quello!»
«Ma lei ha del rosso nei capelli», rispose Jeff, senza sapere con esattezza perché lo dicesse. Ragan non lo ascoltò, e si limitò a fissare il bicchiere, meditabondo.
Li interruppe Ellers, con aria offesa: «Ehi, voi due! Siamo venuti qui per divertirci! Bevete!»
Ragan appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese il mento tra le mani. Fissò Kerwin e disse: «Così, lei è ritornato qui, almeno in parte, per cercare i suoi genitori, la sua famiglia?»
«Per scoprire qualcosa che li riguardi», corresse Kerwin.
«E non le è mai venuto in mente», chiese Ragan, «che forse sarebbe meglio non sapere?»
A onor del vero, Kerwin l'aveva pensato. Si era posto la domanda e aveva anche trovato la risposta. «Non m'importa di scoprire che mia madre era una ragazza come quelle.» Con la testa, indicò le giovani che li servivano e che scherzavano con gli avventori. «Preferisco sapere come stanno le cose.»
Preferisco sapere a quale mondo appartengo, Darkover o Terra...
«Ma all'orfanotrofio non ci sono documenti?»
«Non ho ancora avuto la possibilità di controllare», rispose Kerwin. «Comunque, è il primo posto dove conto di recarmi. Non so quanto mi possano dire, ma è un buon posto per iniziare.»
«E se non potessero dirle niente? Ha a disposizione qualche altro elemento?»
Kerwin si sbottonò il colletto e prese la collana di rame che portava al collo da quando era bambino. «Solo questa», disse. «All'orfanotrofio mi hanno detto che l'ho sempre avuta al collo, fin da quando sono entrato laggiù.»
E laggiù non volevano che la portassi. La direttrice mi ha detto che ero troppo grande per tenere un portafortuna, e ha cercato di togliermelo. Io mi sono messo a gridare — come ho fatto a dimenticarmi di quell'episodio? — e mi sono agitato a tal punto che hanno finito per lasciarmela. Ma perché diavolo mi sono comportato così? Neanche i nonni volevano che la portassi, e perciò ho imparato a non tenerla in evidenza.
«Oh, accidenti», li interruppe Ellers. «Il talismano che si credeva perduto! Tu glielo farai vedere, e loro riconosceranno in te il loro figlio ed erede del castello di Vattelapesca, e da allora in poi vissero felici e contenti.» Scoppiò a ridere, e Kerwin arrossì. Che sciocchezze venivano in mente a Ellers...
«Posso dare un'occhiata?» chiese Ragan, tendendo la mano.
Kerwin si sfilò la collana dal collo, ma attese alcuni istanti prima di darla a Ragan: gli aveva sempre dato fastidio che gli altri la toccassero. Tuttavia, non ne aveva mai parlato con gli psicologi, per evitare una delle loro solite risposte preconfezionate sul subconscio e il sesso.
La catena era di rame, metallo che su Darkover era prezioso. Ma la pietra azzurra che vi era appesa gli era sempre parsa alquanto ordinaria: un gingillo da poco prezzo, che soltanto una ragazza del popolo poteva conservare; non aveva nessuna incisione, era un semplice pezzo di cristallo.
Ma Ragan, nel vederla, fece la faccia stupita e si lasciò sfuggire un fischio. «Per il lupo di Alar, Kerwin! Sa che cos'è?»
Kerwin alzò le spalle. «Qualche pietra dura degli Hellers, suppongo. Non sono un geologo.»
«È una gemma matrice», spiegò Ragan, e, accorgendosi che Kerwin lo fissava senza capire, aggiunse: «Un cristallo psicocinetico».
«Non capisco», disse Ellers, e tese la mano per prendere la gemma, ma Kerwin la tirò indietro, come se volesse proteggerla. Ragan sollevò le sopracciglia.
«È sintonizzata?» chiese.
«Non capisco», rispose Kerwin. «Semplicemente, per chissà quale motivo, mi dà fastidio che la tocchino. Una cosa ridicola, vero?»
«Niente affatto», rispose Ragan, e poi continuò, come se solo in quel momento avesse deciso di dirlo: «Anch'io ne posseggo una. Non certo grossa come la sua; una piccola, di quelle che vendono al mercato, per chiudere i lucchetti o per i giochi dei bambini. Una come la sua, buona per un Comyn... be', non sono certamente comuni, e deve valere una fortuna. Se è stata registrata nelle reti, non sarà difficile scoprire a chi è appartenuta. Ma anche quelle piccole come la mia...» Si tolse di tasca un piccolo involto, di cuoio sottile, e lo aprì. Kerwin scorse un minuscolo cristallo.
«Sono fatte così», spiegò. «Può darsi che abbiano una qualche forma di vita, nessuno lo sa. Comunque, sono pietre che funzionano per una singola persona. Se lei chiude una serratura con una di queste pietre, in seguito non c'è più niente che possa aprirla, tranne la sua intenzione di farlo.»
«Intendi dire che sono magiche?» chiese Ellers, irritato.
«Diavolo, no! Anche se il popolino ignorante parla di stregoneria. Le pietre registrano le nostre onde cerebrali, l'EEG o qualcosa del genere, che sono personali come le impronte digitali. Così, la persona che usa la pietra è la sola che può aprire la serratura; un meraviglioso modo per nascondere le nostre carte private. Io la uso sempre a quel modo. E, inoltre, posso usarla per certi altri trucchetti.»
Kerwin non riusciva a staccare gli occhi dalla gemma di Ragan. Era più piccola della sua, ma chiaramente era fatta dello stesso materiale. Ripeté: «Gemma matrice».
Ellers smise di ridere e disse in tono serio: «Sì, il grande segreto di Darkover. Da diverse generazioni i terrestri cercano di scoprire con qualsiasi mezzo i segreti della tecnologia delle matrici. C'è stato anche un conflitto aperto, dieci o vent'anni fa... non so bene, è stato prima che venissi qui».
E Ragan aggiunse: «Sì, i darkovani ne portano nella Città Terrestre, piccole come la mia, e le vendono in cambio di oggetti di metallo, come pugnali o coltelli. In qualche modo, riescono a trasformare la materia in energia senza sottoprodotti radioattivi. Ma quelle possedute dai terrestri sono molto piccole: i darkovani ne posseggono di molto grandi. Più grandi della sua, Jeff, ma non ne parlano mai».
«Ehi», intervenne Ellers. «Allora potresti davvero essere l'erede del Conte di non-so-che, dopotutto! Una cameriera di una locanda non potrebbe possedere una pietra come quella, se sono tanto preziose!»
Kerwin continuò a soppesare nella mano la gemma, ma non la fissò. Quando lo faceva, aveva l'impressione che il colore della pietra cangiasse e questo gli dava fastidio agli occhi. Tornò a infilare la pietra sotto la camicia. Il modo in cui Ragan lo guardava non gli piaceva. Come se il mezzo-sangue sapesse qualcosa che Kerwin ignorava.
Ragan spinse verso Kerwin il proprio cristallo, che era grosso come una perlina. «Riesce a fissarlo?» gli chiese.
Qualcuno gli aveva già detto la stessa cosa. In passato, qualcuno gli aveva detto: «Fissa la matrice». Una donna, a bassa voce. O aveva detto: «Non fissare mai la matrice»?... A Kerwin faceva male la testa. Senza guardarla, spinse via la pietra di Ragan.
Il mezzo-sangue inarcò le sopracciglia. «Così forte, eh? Sa usare la sua?»
«Usarla?» chiese Kerwin. «E come si usa? Non so niente di queste gemme, maledizione!» aggiunse, con ira.
Ragan si limitò ad alzare le spalle; poi disse: «Io, con la mia, so solo fare qualche piccolo trucco. Guardi».
Bevve le ultime gocce di vino, poi posò il calice sul tavolo, con il gambo in su. Accostò al vetro la piccola gemma, poi si portò le dita alle tempie, per concentrarsi, e fissò il bicchiere. All'improvviso, attorno al gambo di vetro si formò un cerchio luminosissimo; il vetro si sciolse e il gambo del bicchiere si inclinò.
Ellers trattenne bruscamente il fiato, poi imprecò sottovoce. Kerwin provò a chiudere gli occhi e a riaprirli, ma il calice non cambiò: il suo gambo era piegato, come se volesse fare un inchino. A Kerwin ritornò in mente un antico movimento artistico della Terra, che raffigurava oggetti "impossibili" come gli orologi flessibili e le tazzine pelose. La storia dell'arte li ricordava come una curiosa fusione di genialità e di contestazione. E anche quel calice con il gambo piegato sembrava uscire dalle tavolozze del movimento surrealista.
«E anch'io potrei fare qualcosa del genere?» chiese Kerwin. «Potrebbe farlo qualsiasi persona?»
«Con una gemma matrice grande come la sua, potrebbe fare molto di più», gli garantì Ragan, «se imparasse a usarla. Non so molto, sulla tecnica delle matrici, ma se uno si concentra su di esse, riesce a muovere piccoli oggetti, a produrre intenso calore e altre cose. Non occorre molto addestramento, per usarne una di quella dimensione.»
Kerwin sollevò la mano e strinse la pietra che aveva nascosto sotto la camicia. «Allora», disse, «non è un pezzo di cristallo senza valore.»
«Diavolo, no. Vale una piccola fortuna... o una grande fortuna, non saprei dire. Mi stupisce che non gliel'abbiano tolta prima che lasciasse Darkover, sapendo quanto siano ricercate dai terrestri le grosse pietre matrici. Le cercano per fare esperimenti e per accertare i limiti del loro potere.»
Alle parole di Ragan, nella mente di Kerwin si affacciò un altro lontano ricordo. Mentre era sotto l'effetto dei sedativi, sulla nave che lo doveva portare sulla Terra, una delle inservienti aveva cercato di togliergli la gemma; lui si era svegliato e si era messo a gridare. Fino a quel momento, aveva sempre pensato che fosse un effetto dei farmaci che gli avevano iniettato, ma ora disse, con aria cupa: «Se ricordo bene, devono avere cercato di farlo».
«Sono certo che le autorità del Quartier Generale Terrestre darebbero una bella somma, per avere una gemma matrice di quella dimensione», disse Ragan. «Se le venisse in mente di cedergliela, potrebbero darle una grossa somma, nei limiti del ragionevole. O potrebbe chiedere una buona promozione.»
Kerwin gli sorrise. «Visto che mi sento male tutte le volte che me la tolgo», disse, «la cosa presenterebbe qualche difficoltà.»
«Vuoi dire che non te la togli mai?» chiese Ellers, con voce da ubriaco. «E la cosa non ti dà fastidio? Per esempio, come fai, sotto la doccia?»
Kerwin rispose, sorridendo: «Be', se si tratta solo di toglierla, non ci sono problemi. Ma mi sento un po' strano,quando la tolgo, o quando mi stacco da essa per qualche tempo».
In quelle occasioni, Kerwin si era sempre dato del superstizioso e dell'irrazionale, a trattare la gemma come se fosse un feticcio.
Ragan scosse la testa. «Come dicevo, sono gemme strane. Non ci permettono di lasciarle... diavolo, è una cosa che non ha senso, ma è proprio come dico. Non so come funzioni, so solo che è così. Forse possiedono veramente una loro forma di vita. Vede, si attaccano a noi; non si può semplicemente andare via e lasciarle a casa, e non conosco nessuno che abbia perso la propria gemma. Anzi, conosco un tale che perdeva sempre le chiavi di casa; allora ha preso una di queste gemme e l'ha messa nel portachiavi. Da quel momento in poi, le assicuro, quando perdeva le chiavi riusciva immediatamente a trovarle.»
Quanto Ragan gli raccontava, pensò Kerwin, spiegava molte cose. Compreso il motivo per cui un ragazzino si era messo a piangere come se avesse la metà dei propri anni, quando una prosaica direttrice terrestre aveva cercato di togliergli il "portafortuna". Alla fine erano stati costretti a ridarglielo. Con un brivido, adesso Kerwin si chiese che cosa sarebbe successo, se non glielo avessero dato. Non lo sapeva e non voleva saperlo. Toccò di nuovo la gemma, sotto la camicia, e scosse la testa, ricordando la convinzione che aveva da bambino, che quella gemma gli avrebbe rivelato il suo passato, la sua identità e quella della madre, i suoi lontani ricordi e i suoi sogni semidimenticati.
«Naturalmente», disse con ironia, «speravo che quell'amuleto rivelasse davvero che ero il figlio e l'erede del tuo Conte di non-so-che. Ma adesso temo di dover rinunciare a quella illusione.»
Si portò il bicchiere alle labbra, e rivolse un cenno alla ragazza darkovana, perché riempisse i loro bicchieri.
E, così facendo, lo sguardo gli cadde sul bicchiere che era stato piegato da Ragan. Diamine, doveva essere più ubriaco di quanto non pensasse.
Il bicchiere era dritto, adesso, e poggiava su un gambo ben rettilineo, senza la minima curvatura. Era un normalissimo bicchiere, senza alcunché di strano.
CAPITOLO 3
GLI SCONOSCIUTI
Dopo altri tre bicchieri di vino, Ragan si scusò e spiegò di avere terminato un lavoro per il Quartier Generale Terrestre e di dover fare rapporto per ricevere il pagamento. Quando il mezzosangue se ne fu andato, Kerwin fissò con irritazione Ellers, che aveva fatto una specie di gara con Ragan, a chi beveva di più. Non era così che avrebbe voluto passare la prima serata sul mondo che sognava fin dall'infanzia. Non sapeva che cosa volesse esattamente, ma non certo sedere per tutta la notte a un tavolo di taverna e ubriacarsi. «Ascolta, Ellers...»
Ma Ellers non gli rispose: si era addormentato e ronfava tranquillamente, piegato sulla panca.
In quel momento arrivò la ragazza darkovana, con due bicchieri pieni di vino — Kerwin, a quel punto, ne aveva perso il conto — e guardò Ellers con aria delusa e rassegnata. Stava già per scuotere la testa, ma l'occhio le cadde su Kerwin; tornò a sorridere e, nel posare i bicchieri sul tavolo, fece in modo di strofinarsi su di lui. Portava una tunica con una larga scollatura, e Kerwin, quando la ragazza si chinò, le scorse il solco tra i seni, sentì l'odore dolciastro di incenso dei suoi capelli e dei suoi vestiti. Kerwin provò uno strano senso di leggerezza: tornava a sentire il profumo di una donna di Darkover; poi si accorse che la ragazza aveva gli occhi duri, lo sguardo vacuo, e la voce leggermente stridula. «Allora, ti piace il panorama, bel giovanottone?»
Aveva parlato nella lingua dei terrestri, non in quella musicale della città di Thendara; fu questo, soprattutto a dare fastìdio a Kerwin. «Se ti piace Lomie, puoi venire con me, ti troverai bene...» continuava la ragazza.
Kerwin sentì un gusto di amaro in gola, che non era solo dovuto al vino. Su qualsiasi pianeta di qualsiasi stella, le ragazze che frequentavano quel tipo di locali, vicino agli spazioporti, erano tutte uguali.
«Vieni, allora?...»
Senza sapere bene quel che faceva, Kerwin si afferrò al bordo del tavolo e si alzò; dietro di lui, la panca su cui sedeva cadde a terra. Fissò con irritazione la ragazza e le disse, in una lingua che credeva di avere dimenticato:
«Va' via, hai i modi di una capra di montagna, e va' da un'altra parte a coprire le tue vergogne, e non mostrarle a uomini venuti da mondi che disprezzano il tuo! Dov'è finito l'orgoglio della tua gente, svergognata?»
La ragazza rimase a bocca a aperta, fece un passo indietro e istintivamente si portò la mano alla scollatura, per coprirsi; poi rivolse a Kerwin un profondo inchino. Inghiottì a vuoto e disse, nel dialetto della città: «Perdono, signore... chiedo scusa, nobile signore...» e indietreggiò, piangendo. Ancora per qualche istante Kerwin sentì i suoi singhiozzi e il suo profumo di incenso.
Kerwin si sentì girare la testa e dovette tenersi al tavolo. Idiota, perché ti sei ubriacato? E, poi, che cosa hai detto a quella povera ragazza? Era stupito del proprio comportamento. Perché trattare male quella ragazza? Neanche lui era uno stinco di santo: perché fare tanto il puritano e redarguire una povera servetta? In passato, Kerwin aveva frequentato molte volte quel tipo di ragazze.
E, poi, in che lingua si era rivolto a lei? Non era il dialetto della città; ma Kerwin non sarebbe stato capace di ripeterne neppure una parola; ricordava solo il senso della frase.
Ellers, fortunatamente, aveva continuato a dormire per tutto il tempo; se l'avesse visto, gli avrebbe dato una bella sgridata. È meglio uscire di qui finché sono ancora in grado di stare in piedi,pensò, e prima di fare altre sciocchezze!
Si chinò su Ellers e provò a scuoterlo, ma lui non si mosse. Kerwin si rammentò che il suo compagno aveva bevuto quanto lui e Ragan messi insieme. Del resto, faceva sempre così, quando andava in qualche bettola. Kerwin alzò le spalle, sollevò la panca che era caduta in terra, vi adagiò i piedi di Ellers e poi si diresse verso la porta, anche se faticava a mantenere l'equilibrio.
Uscì all'aria fresca. Non gli occorreva altro. Tuttavia, era meglio ritornare all'interno della Zona Terrestre; almeno, all'interno dei cancelli dello spazioporto, sapeva come comportarsi. Ma credevo anche di sapere come comportarmi su Darkover,pensò. Che cosa mi è successo?
Il sole era quasi al tramonto, e le strade erano piene di darkovani con vestiti dai vivaci colori. Kerwin si godette lo spettacolo, dopo la delusione dello spazioporto e della taverna: quella strada era reale, e lui era di nuovo a casa.
Il sole tramontò e cominciò a cadere la pioggia che, come ogni sera, bagnava la città. Si accese anche il faro in cima al Quartier Generale Terrestre, e Kerwin, anche se con riluttanza, si mosse in quella direzione.
Pensava alla ragazza darkovana della taverna: quella che lui aveva sgridato. Era graziosa e sembrava anche pulita: che si poteva volere di più, al proprio ritorno a casa? Perché l'aveva mandata via? E perché l'aveva insultata?
Kerwin era inquieto, indeciso. Era davvero a casa? "Casa" era qualcosa di più che una città: era la gente, la famiglia. Lui, sulla Terra, aveva una famiglia, ma non una casa. I nonni non avevano voluto lui,ma solo la possibilità di rifare suo padre a propria immagine. Il Servizio, allora? Ellers era l'unico amico che avesse, ma che cos'era Ellers? Un ubriacone e un uomo senza basi. Kerwin, invece, avrebbe voluto trovare le sue radici, la sua casa, la gente e il pianeta che non aveva mai conosciuto. Gli tornarono in mente le parole dette a Ellers: «Speravo che l'amuleto mi servisse a scoprire la mia famiglia...»
Ora, finalmente, capiva che la cosa lo avesse portato a Darkover: l'idea di poter trovare il proprio luogo di appartenenza. Altrimenti, perché lasciare il pianeta precedente? Per ritornare su Darkover, lo sapeva, aveva rinunciato a ogni seria possibilità di carriera.
E adesso che era di nuovo su Darkover, e aveva respirato la sua aria sottile e frizzante, c'era il rischio che il futuro gli riservasse una grande delusione. Che sua madre fosse davvero una di quelle ragazze che si strofinavano addosso agli avventori di una taverna, ansiose di alleggerirli della paga? Se così era, non poteva che condannare il gusto di suo padre. Suo padre? Aveva sentito parlare spesso di suo padre, nei sette anni in cui era rimasto con i nonni, e l'immagine che se ne era fatto era molto diversa. Suo padre, a quanto pareva, era una persona dai gusti molto esigenti. Almeno, a stare ai nonni... Comunque, aveva dato al figlio la cittadinanza dell'Impero.
Bene, lui avrebbe fatto quel che era venuto a fare. Avrebbe cercato di trovare la madre, e di capire perché il padre lo avesse lasciato all'orfanotrofio. E poi? Già, e poi? In qualche modo, non si era mai preoccupato di questo aspetto.
Farò volare quel falco quando avrà messo le penne , si disse, e solo dopo qualche istante si accorse che era un provèrbio di Darkover.
Ora che il sole era tramontato, la pioggerellina serale lasciava il posto a una breve nevicata. Durante il giorno aveva fatto così caldo che Kerwin si era dimenticato della rapidità con cui, la sera, si abbassava la temperatura. Dopo il primo brivido, prese a camminare più in fretta.
Dopo qualche tempo, però, si accorse di essersi perso. Si era diretto verso la piazza su cui si affacciava lo spazioporto, ma ora vide di essere giunto a un'altra piazza, molto più piccola. Di fronte a lui c'era una fila di piccoli ristoranti. Con soddisfazione, scorse alcuni terrestri in mezzo alla folla: fortunatamente, pensò, non era entrato nella zona vietata al personale dello spazioporto; prima di lasciare la nave lo avevano avvertito di evitarla. Però, davanti ad alcuni locali erano legati cavalli, a testimoniare la presenza dei darkovani. Passò davanti alle vetrine, poi entrò in un locale da cui giungeva il profumo della cucina darkovana. Aveva bisogno di mangiare, si disse; cibo naturale, non quello calibrato e sintetico dell'astronave. Nella penombra del locale non si riusciva a scorgere bene i volti; tuttavia, non gli parve di riconoscere nessuno di coloro che aveva incontrato sulla Corona del Sud.
Si sedette a un tavolo d'angolo, fece le ordinazioni e, quando gli venne portato il cibo, iniziò a mangiare con gusto. Accanto a lui, una coppia di darkovani, vestiti con maggiore eleganza della media, mangiava svogliatamente e si guardava attorno. Avevano mantelli vivacemente colorati e calzavano stivali alti fino al ginocchio; al fianco portavano un pugnale. Uno di loro aveva i capelli rossi, e Kerwin lo guardò con curiosità; i darkovani di Thendara avevano i capelli neri, e Kerwin ricordava che, da bambino, i suoi capelli rossi attiravano su di lui gli sguardi della gente. Curiosamente, anche i suoi nonni avevano i capelli scuri. All'orfanotrofio, Kerwin era stato soprannominato Tallo,"rame", un po' come presa in giro, ma anche un po' per timore. Le sorveglianti darkovane avevano fatto del loro meglio per cancellare quel soprannome. Anche se le inservienti avevano la proibizione di insegnare ai ragazzi le superstizioni locali, Kerwin ne aveva ricavato l'impressione che i capelli rossi fossero considerati di malaugurio.
Tuttavia, anche se forse erano di malaugurio, coloro che avevano i capelli rossi non davano l'impressione di preoccuparsene.
Sulla Terra, dove i capelli rossi non erano affatto rari, tutt'al più sopravviveva qualche detto semi-scherzoso sul carattere permaloso delle persone con i capelli rossi. Ma se su Darkover i capelli rossi erano rari, la cosa poteva spiegare il comportamento di Ragan: dapprima, a causa del colore dei capelli, il mezzo-sangue l'aveva scambiato per una persona nota, poi lo aveva guardato bene e si era accorto dell'errore.
Comunque, ora che ci pensava, anche Ragan aveva una sfumatura di rosso nei capelli; forse, da bambino, li aveva rossi come i suoi. Kerwin cercò di ricordare se all'orfanotrofio c'era qualche altro ragazzo con i capelli di quel colore. Gli pareva di averne conosciuti alcuni, quando era molto piccolo...
Forse, li ho conosciuti prima di andare all'orfanotrofio. Probabilmente, era mia madre ad avere i capelli rossi, e io ho conosciuto qualche cuginetto che li aveva... Tuttavia, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare i suoi primi anni di vita. Era come se fossero stati cancellati dalla sua memoria. Ricordava solo di avere avuto incubi...
Dalla parete, un altoparlante annunciò: «Attenzione. A tutto il personale dello spazioporto, attenzione».
Kerwin sollevò le sopracciglia, con irritazione. Si era recato in quel locale per sfuggire a quel tipo di cose, e adesso gli davano la caccia perfino lì. Evidentemente, anche gli altri avventori la pensavano come lui, perché sentì sbuffare e vide che la gente scuoteva la testa.
Con voce metallica, l'altoparlante continuò, in terrestre: «Attenzione, tutto il personale con velivoli nel parcheggio si presenti alla Divisione B. Ai non addetti alla manovra è vietato il sorvolo del campo. La Corona del Sud decollerà in orario, ripeto, in orario. Presentarsi alla Divisione B...»
Il darkovano dai capelli rossi che Kerwin aveva notato, disse forte, nel dialetto cittadino che tutti capivano: «Questi terrestri sono davvero spilorci, per disturbarci tutti con la loro scatola vociante, invece di dare qualche soldo a un lacché per portare i loro messaggi a chi di dovere». Per dire "lacché", si servì di un termine particolarmente ingiurioso.
Un funzionario dello spazioporto, in uniforme, si girò a guardarlo con ira, poi alzò le spalle, s'infilò in testa il berretto e uscì dal ristorante. Una ventata d'aria gelida arrivò fino a Kerwin — il funzionario fu solo il primo di un piccolo gruppo di terrestri che si allontanarono alla spicciolata — e il darkovano vicino a Kerwin disse al compagno: «Tante arie, questi terrestri, ma tutti fifoni», e scoppiò a ridere.
L'altro fece un commento ancor più offensivo, e fissò Kerwin, il quale si accorse di essere l'unico terrestre rimasto nel locale. Strinse i denti per l'irritazione: anche se si trattava di un comportamento infantile, quel genere di insulti gli aveva sempre fatto saltare la mosca al naso. Sulla Terra lo prendevano in giro perché era darkovano; adesso, su Darkover, si vedeva prendere in giro perché era terrestre. Inoltre, era irritato con se stesso per quanto aveva fatto nel pomeriggio. Tuttavia si limitò a ripetere, senza fissare nessuno in particolare, un proverbio darkovano sentito chissà dove: «Il coniglio di palude affogò alla prima pioggia, perché non ebbe l'intelligenza di tenere la bocca chiusa».
Uno dei due darkovani — non quello con i capelli rossi — si alzò di scatto e si girò verso di lui, facendo cadere il bicchiere di peltro. Il rumore fece girare tutti nella loro direzione, e anche Kerwin si alzò in piedi. Una parte di lui si chiedeva, con irritazione, che cosa intendesse fare: due scenate in due locali diversi, per finire in guardina proprio il giorno del ritorno a casa?
Poi il darkovano dai capelli rossi prese per il gomito l'amico e gli mormorò alcune parole che Kerwin non riuscì ad ascoltare. L'uomo che si era alzato sollevò gli occhi e fissò i capelli di Kerwin, che adesso erano illuminati da una delle lampade, e mormorò: «Va bene, non voglio guai con i Comyn...»
Kerwin si chiese che cosa fosse successo. Il darkovano abbassò gli occhi verso il compagno, ma non lesse nel suo sguardo alcun incoraggiamento. Allora sollevò il braccio, fino all'altezza degli occhi, mormorò qualcosa che sembrava: «Su serva, vai dom,suo servitore, signore...» e si affrettò a uscire dal locale.
Kerwin si accorse che tutti gli avventori lo guardavano, ma fissò il cameriere e lo costrinse a distogliere lo sguardo. Prese la tazza contenente il locale equivalente del caffè — una bevanda contenente caffeina, che però aveva un gusto simile a quello del cioccolato — e ne bevve un sorso. Era freddo.
Il darkovano rimasto, quello dai capelli rossi, si alzò a sua volta e venne a sedersi nel posto vuoto, davanti a Kerwin.
«Chi diavolo è lei?» chiese. Stranamente, parlò in terrestre, ma senza scioltezza, e compitando le parole.
Kerwin posò la tazza e rispose: «Nessuno di sua conoscenza, amico. Torni pure al suo tavolo».
«No, parlo sul serio», continuò il darkovano. «Come si chiama.»
All'improvviso, Kerwin si inalberò. Che diritto aveva, quell'uomo, di fargli tante domande?
«Johnny Menagramo, una divinità molto antica», rispose. «E comincio a sentire il peso dei millenni. Se ne vada, o la farò scappare come il suo amico.»
L'uomo dai capelli rossi rise, ma in un modo antipatico, in segno di derisione. «Non è mio amico», disse, «ed è ovvio che anche lei non è quello che sembra; quando è andato via, il più stupito era proprio lei. Naturalmente, l'ha scambiato per uno di noi.» S'interruppe e corresse: «Per uno dei miei parenti».
Kerwin disse: «Che cos'è, la Settimana della Famiglia? No, grazie, io discendo da una lunga genealogia di uomini-lucertola della stella Arturo». Prese il "caffè" e ne bevve un altro sorso, mentre l'altro continuava a osservarlo. Poi il darkovano si girò, mormorando: «Terrestre», con un tono che era di per se stesso un insulto.
Adesso che era fatta, Kerwin si pentì di non essersi comportato più educatamente. Era la seconda volta che qualcuno lo scambiava per un altro. Se a Thendara c'era qualcuno che gli assomigliava tanto... be', lui non era venuto su Darkover per cercare i suoi possibili parenti? Per un attimo fu tentato di seguire quell'uomo per chiedergli una spiegazione, ma non lo fece perché temeva di essere nuovamente insultato. Con un profondo senso di frustrazione, posò alcune monete sul tavolo, raccolse il pacchetto degli abiti che aveva comprato al negozio vicino allo spazioporto, e uscì dal ristorante.
La strada era coperta di neve, faceva freddo e si era levato un vento gelido. Kerwin, con indosso solo la giubba dell'uniforme, rabbrividiva. Sapeva perfettamente com'era il tempo, dopo il tramonto, si disse. Perché non s'era portato qualcosa di pesante? Poi si ricordò di avere con sé un indumento pesante, anche se un po' bizzarro, forse, e di poterlo indossare durante il tragitto di ritorno. Con le dita ormai rigide, aprì il pacchetto e prese il mantello ricamato e imbottito. Se lo drappeggiò sulle spalle e il calore della pelliccia lo avvolse immediatamente come una carezza.
Voltò in una strada laterale; si trovò sulla piazza dello spazioporto e scorse le luci al neon dell'hotel. Kerwin doveva ancora recarsi al Quartier Generale e farsi assegnare il suo alloggio; doveva presentarsi a rapporto, non sapeva neppure dove andare a dormire quella notte. Prima di recarsi al Quartier Generale, però, si recò all'hotel per un ultimo bicchiere e per riflettere sugli avvenimenti della giornata. Eventualmente, avrebbe potuto farsi dare una camera per la notte.
Il portiere, indaffarato a mettere in ordine i conti, lo degnò solo di un'occhiata.
«Lei, da quella parte», gli disse, e tornò ai suoi conti.
Kerwin, sorpreso — che il Servizio avesse preso accordi con l'hotel? — fece per protestare, poi alzò le spalle e si diresse verso la porta che gli era stata indicata.
E subito si fermò, perché era entrato in una sala preparata per una festa privata: al centro c'era una tavola imbandita, con cibi e fiori in alti vasi di cristallo; in fondo alla stanza, un uomo con i capelli rossi e con una ricca cappa ricamata lo osservava... poi si accorse che la parete in fondo alla sala era uno specchio e che l'alto darkovano dai capelli rossi era lui. Tuttavia, quell'immagine aveva anche qualcosa di familiare. Che avesse già visto qualcuno vestito in quella maniera?
Kerwin aggrottò la fronte, con irritazione. Certo, che l'immagine aveva qualcosa di familiare: era la sua! Inoltre, il portiere doveva averlo scambiato per un darkovano e lo aveva mandato in quella sala privata. Probabilmente, a Thendara c'era qualcuno che gli assomigliava, e questo spiegava tutti gli equivoci della giornata.
«Siete arrivato presto, Com'ii»,disse una ragazza dietro di lui, e Kerwin si girò in quella direzione.
Di primo acchito pensò che fosse una terrestre, perché aveva i capelli biondo oro raccolti in piccoli riccioli. Era piccola e minuta, e l'ampio vestito non nascondeva le sue forme. Kerwin si affrettò a distogliere lo sguardo, perché fissare in pubblico una donna di Darkover era un'offesa, punibile con una bastonatura se qualche parente della donna se ne accorgeva. Ma la donna gli sorrise per dargli il benvenuto, e fu soprattutto questo a far credere a Kerwin che fosse terrestre, anche se parlava in darkovano.
«Come siete arrivato?» chiese la donna. «Pensavo che dovessimo arrivare con le rispettive Torri.»
Anche ora, Kerwin la guardò senza capire. Arrossì e disse, nella lingua locale: «Le mie scuse, signora. Non mi ero accorto che fosse una sala riservata. Scusate l'intrusione, me ne andrò immediatamente».
La ragazza lo guardò. Non sorrideva più. «Via», disse, «abbiamo molte cose da discutere...» Poi s'interruppe e chiese: «O forse mi sbaglio?»
Kerwin rispose: «Un errore ci deve essere», e solo allora notò che la ragazza non aveva parlato nella lingua di Thendara, ma nella lingua sconosciuta in cui si era espresso anche lui quel pomeriggio.
La ragazza lo fissò e disse: «Nel nome dei Figli di Aldones e della loro divina Madre, chi siete?»
Kerwin stava per dire il proprio nome, ma si rese conto che non poteva significare niente per lei. Maledizione, pensò, il suo sosia doveva essere una persona ben strana, se era conosciuto tanto nelle bettole del porto quanto nelle salette riservate dell'aristocrazia di Darkover... perché quella ragazza non poteva che essere un'aristocratica.
Irritato da tutti quei misteri, disse: «Non mi riconoscete? Sono il cugino Billy, la pecora nera della famiglia, rapito dai pirati spaziali in tenera età. Il seguito alla prossima puntata».
Lei scosse la testa. Come c'era da aspettarsi, l'ironia di Kerwin e i riferimenti delle sue battute non avevano alcun significato per la ragazza di Darkover, che disse: «Ma voi siete certo dei nostri. Della Città Nascosta, forse? Chi siete?»
Kerwin cominciava a essere stanco di quel gioco. Se in quel momento avesse visto il proprio sosia, l'uomo che lo faceva finire in quelle situazioni imbarazzanti, lo avrebbe preso a pugni sul naso.
«Ascoltate», le disse, «è evidente che voi mi prendete per un altro. Non so niente di Città Nascoste... forse sono nascoste troppo bene. Su che pianeta sono? Voi non siete di Darkover, vero?» Infatti, Kerwin non aveva mai visto una darkovana che si comportasse come lei.
La ragazza fece una faccia ancor più stupita. «Eppure, parlate la lingua di Valeron», gli disse. E aggiunse nella lingua di Thendara: «È una situazione che deve essere chiarita. C'è qualcosa di molto strano. Dove possiamo vederci per parlarne?»
«Qui, e in questo momento», rispose Kerwin, «mi pare il posto adatto. Non conoscerò bene Darkover, ma alcune cose le so anch'io. Non voglio che un vostro fratello o un vostro cugino mi sfidi a duello proprio il giorno del mio arrivo sul pianeta. Sempre che voi siate di Darkover.»
La ragazza gli rivolse un brevissimo sorriso. «Non riesco a crederci», disse. «Non sapete chi sono, e, quel che è peggio, non sapete neppure che cosa sono. Pensavo che veniste da una delle Torri più lontane, e che non vi avessi mai incontrato di persona, ma solo sui relè. Una persona di Hali, Neskaya o Dalereuth...»
Kerwin scosse la testa.
«Dovete credermi», disse, «non posso essere un vostro conoscente. Però, mi piacerebbe sapere l'identità della persona per cui continuate a scambiarmi; sarà curioso di sapere che ha un sosia in città, e anch'io potrei rivolgergli alcune domande.»
«Non saprei...» rispose la donna. Finalmente, sotto il mantello di Kerwin, aveva notato l'uniforme terrestre. «Però, vi pregherei di rimanere qui, ancora per un poco. Kennard vorrà...»
«Taniquel, che cosa succede?» chiese qualcuno. Nello specchio, Kerwin vide che si stava avvicinando un uomo. Si girò, pensando che forse era il suo sosia. In quelle poche ore, aveva imparato ad aspettarsi di tutto. Ma non lo era.
Il nuovo venuto era alto e pallido, e anche lui aveva i capelli rossi. Kerwin lo trovò immediatamente antipatico, ancor prima di riconoscere l'uomo del ristorante. Il darkovano capì all'istante la situazione e fissò irritato la ragazza.
«C'è qui un estraneo e tu gli parli da sola a solo, Taniquel?» chiese.
«Auster, volevo soltanto...» si scusò la ragazza.
«Un terrestre!»
«All'inizio l'avevo scambiato per uno di noi. Pensavo che venisse da Dalereuth o da qualche luogo simile.»
Il darkovano rivolse a Kerwin uno sguardo sprezzante. «L'ultima volta che gli ho parlato», disse, «diceva di essere un uomo-lucertola.» Scosse la testa e disse alcune frasi alla ragazza, nella lingua "di Valeron", come lei l'aveva chiamata. Parlò così in fretta, però, che Kerwin non riuscì a comprendere neppure una parola. Il tono e i gesti, comunque, erano sufficienti a fargli capire che l'uomo aveva un diavolo per capello.
Ma qualcuno lo interruppe. «Via Auster, non è niente di grave. Vieni qui, Taniquel, spiegami che cosa è successo.»
Un altro uomo era entrato nella stanza. Anch'egli aveva i capelli rossi — che cos'era, un raduno? si chiese Kerwin — ma era un uomo maturo, di corporatura massiccia, con molti fili grigi tra i capelli. Il suo connotato più appariscente erano le sopracciglia, foltissime. Nel camminare, zoppicava leggermente, e si appoggiava a un robusto bastone dall'impugnatura di rame. Fissò Kerwin e gli disse: «S'dia shaya; sono Kennard, terzo di Arilinn. Chi è il vostro Guardiano?»
Kerwin capì benissimo l'ultima parola. Guardiano. Poteva tradursi anche "custode", "sorvegliante", "controllore" o addirittura "secondino".
«Di solito mi lasciano uscire da solo», disse, seccamente. «Almeno, da qualche anno in qua.»
Intervenne Auster: «Hai fatto lo stesso nostro errore, Kennard. L'amico è un... uomo-coccodrillo di Arturo, o almeno così afferma. Naturalmente, come tutti i terrestri, è un bugiardo».
«Un terrestre!» esclamò Kennard. «Impossibile!» Fece la stessa faccia stupita che aveva fatto, prima, la ragazza.
Kerwin ne aveva abbastanza. Disse, per troncare la discussione: «No, è perfettamente possibile, e, anzi, è la verità; sono un cittadino terrestre. Ma sono nato su Darkover e considero questo pianeta come la mia patria, e in gioventù ho imparato a esprimermi nella lingua di Thendara. Ora, se ho disturbato qualcuno o se mi sono intromesso in una riunione privata, vi faccio le mie scuse e vi auguro la buona notte». Girò sui tacchi e fece per lasciare la sala.
Auster mormorò qualcosa che sembrava "coniglio smidollato!"
Kennard disse: «Aspettate», con una tale cortesia che Kerwin, anche se era quasi alla porta, si fermò. «Se aveste qualche minuto da dedicarci, sarei lieto di parlarvi, signore. Potrebbe essere importante.»
Kerwin lanciò un'occhiata alla ragazza, Taniquel, e per poco non cedette. Ma gli bastò guardare Auster per convincersi ad andarsene. Non intendeva litigare con quell'uomo. «Grazie, ma temo di non potermi trattenere», disse. «Sarà per un'altra volta. E vi rinnovo le mie scuse per avervi disturbato.»
Auster mormorò qualche altra parola sprezzante, e Kerwin finse di scambiarli per complimenti: si inchinò anche a lui e disse alcune parole di commiato. La ragazza continuò a guardarlo mentre si allontanava, e Kerwin si disse che l'orgoglio gli aveva fatto fare un'idiozia. La cosa giusta da fare — e in quel momento era ancora in tempo a farla — sarebbe stata quella di girarsi, tornare da Kennard e farsi dire quel che l'uomo voleva dirgli, e che forse era proprio la spiegazione da lui cercata. Ma Kerwin non poteva cambiare idea senza perdere la propria dignità. Perciò ripeté un: «Buona notte», e uscì dalla sala, mentre Auster, dietro di lui, chiudeva la porta.
Nell'attraversare l'atrio dell'hotel, Kerwin provava uno strano senso di sconfitta. Un gruppo di darkovani, vestiti di splendide cappe come la sua — niente capi d'importazione in tessuto sintetico, tra la nobiltà — entrava in quel momento nell'atrio e si dirigeva verso la saletta di Taniquel e Kennard. Anch'essi avevano i capelli rossi, notò Kerwin, e i darkovani di estrazione molto più popolare, che affollavano l'atrio, li guardarono con rispetto e mormorarono tra loro. Ancora una volta, Kerwin sentì la parola Comyn.
L'aveva già sentita, quel pomeriggio, dal venditore di abiti («Il ricamo, un mantello adatto a un Comyn, la bellezza del cuoio...») e anche Ragan, nel vedere la gemma-matrice, l'aveva definita «buona per un Comyn». Kerwin cercò di ricordare il significato della parola: significava soltanto "gli uguali", e indicava i pari grado della persona che parlava. Tuttavia, né il venditore, né Ragan, né la gente della folla aveva usato la parola in quel modo: l'avevano usata con soggezione, come per riferirsi alla più alta aristocrazia.
All'esterno, la pioggia era cessata, e aveva lasciato il posto a una fitta nebbia. Un darkovano con una cappa verde e nera — e i capelli rossi, naturalmente — passò accanto a Kerwin e disse: «Affrettatevi a entrare, altrimenti arriverete in ritardo», e s'infilò nell'albergo. Sembrava uno strano posto per tenervi una riunione di famiglia dell'aristocrazia darkovana, ma, dopotutto, la cosa non lo riguardava. O lo riguardava? Naturalmente, poteva ancora entrare e chiedere se qualcuno avesse perso un cugino, circa vent'anni prima, ma gli parve una sciocchezza.
Nella stradina buia si scorgeva solo il chiarore del faro posto in cima al Quartier Generale e dei lampioni accanto al cancello del campo. Kerwin sapeva che laggiù poteva trovare una stanza e perfino qualche amico: Ellers s'era già svegliato, probabilmente, ed era rientrato.
Ma l'unica cosa che non potesse trovare laggiù era l'imprevedibile. Avrebbe trovato una fila di stanze uguali a quelle che aveva visto su tutti gli altri pianeti, gli stessi cibi che si servivano in tutte le mense dell'Impero, in modo che chi vi lavorava potesse essere trasferito all'altro capo della Galassia senza sentirsi spaesato. Uomini senza spirito, che per riuscire a vivere su pianeti straordinari usavano l'artificio di voltare loro la schiena, di vivere in un ambiente opaco come quello terrestre.
Su qualsiasi pianeta si trovassero, vivevano come sulla Terra, a parte i regolari periodi di "ricreazione", in cui uscivano a fare baldoria e a immergersi nel "colore locale". In quei periodi cercavano invariabilmente gli aspetti peggiori,non i migliori, del mondo dove si trovavano. Non le bevande più raffinate, ma le più robuste, quelle che permettevano di ubriacarsi più in fretta; donne disponibili, anche se non eccessivamente interessanti, e un posto dove spendere la paga. La realtà di mondi come Darkover sarebbe rimasta eternamente al di fuori della loro portata, esattamente come la bella ragazza della nobiltà che aveva salutato Kerwin con il nome di com'ii,amico.
Girò le spalle al cancello e guardò la piazza. Dietro i bar per i terrestri, i negozi per turisti, i locali compiacenti e le mostre di oggetti locali, doveva esserci il vero Darkover, quello che lui aveva conosciuto da bambino e che poi aveva continuato a sognare. E da dove venivano quei sogni? Non certo dall'orfanotrofio!
Lentamente, si avviò verso la Città Vecchia, e si chiuse al collo il mantello darkovano. Non gli pareva di correre alcun pericolo, a visitare la città che aveva conosciuto nella sua giovinezza. Sapeva che i terrestri erano malvisti in quella zona, ma lui era vestito da darkovano, parlava la lingua: non era un qualsiasi terrestre ignorante, appena sbarcato da un'astronave.
Per strada si vedeva poca gente: solo qualche ritardatario che si affrettava a ritornare a casa, a capo chino per ripararsi dal vento. Una ragazza, che indossava solo un mantello leggero e che rabbrividiva per il freddo, si rivolse a Kerwin e gli mormorò qualcosa nella lingua della città. Lui rallentò il passo, perché gli pareva che la ragazza fosse timida e gentile, del tutto diversa dall'aggressiva cameriera del bar che tanto lo aveva fatto irritare. Ma la ragazza alzò lo sguardo, scorse i suoi capelli rossi e, mormorando qualche parola incomprensibile, si allontanò.
Proseguendo lungo quella strada, poco più tardi Kerwin si trovò nella piazza del mercato. Un banco era ancora aperto: una vecchia che vendeva pesce fritto. Prendeva i filetti di pesce e li immergeva dentro una spessa pastella, poi li metteva a friggere in un recipiente pieno d'olio giallo-verde. Quando alzò gli occhi e vide Kerwin, disse qualcosa in un incomprensibile dialetto della campagna, e gli porse uno dei pesci. Kerwin stava per scuotere la testa, ma il pesce aveva un buon profumo; perciò si frugò in tasca e prese qualche moneta, ma la donna lo guardò con stupore e si tirò indietro. Le monete caddero a terra, e la donna disse una frase di cui Kerwin capì una sola parola: «Comyn». Aggrottò la fronte. Sembrava che la vecchia avesse visto il diavolo! Che cosa succedeva, quella sera? Sembrava che lui avesse il potere di spaventare la gente. Forse era colpa dei capelli rossi; probabilmente, tra il popolino erano considerati di malaugurio. Più di quanto non gli avessero fatto credere all'orfanotrofio!
O forse era colpa del mantello darkovano. Kerwin se lo sarebbe tolto, ma faceva troppo freddo per rimanere con la sola uniforme. Inoltre, in quella zona della città, le uniformi terrestri non erano viste di buon occhio.
Lui aveva contato proprio su quel tipo di impostura per aggirarsi senza pericolo nella Città Vecchia, ma adesso si accorse che tutti lo guardavano. Forse era meglio lasciare perdere le escursioni e fare ritorno al Quartier Generale.
Perciò fece dietro-front e si avviò verso il faro, camminando in fretta. Sentì che qualcuno lo seguiva, ma non diede peso alla cosa: in una sera fredda come quella, non poteva pretendere di essere il solo ad avere un buon motivo per ritornare a casa! I passi si avvicinarono e accelerarono per sorpassarlo, e Kerwin, istintivamente, si fece di lato per lasciar passare l'uomo dietro di lui.
Fu quello il suo errore. Qualcosa lo colpì alla testa; mentre cadeva a terra sentì qualcuno proferire una strana minaccia:
«Che il figlio del barbaro non osi ritornare nelle piane di Arilinn! La Torre Proibita è stata distrutta e la Campana d'Oro è stata vendicata!»
Parole assolutamente prive di senso, Kerwin fece ancora in tempo a pensare, prima di cadere a terra e di perdere i sensi.
CAPITOLO 4
LA RICERCA
Era l'alba, e pioveva, e qualcuno gli parlava all'orecchio.
«Non muovetevi, vai dom,nessuno vi farà del male! Vandali! Com'è caduta in basso, questa città. Assalire i Comyn...»
E qualcun altro: «Non dite sciocchezze. Non vedete l'uniforme? È un terrestre, e qualche testa finirà per saltare. Chiamate la Guardia, presto!»
Qualcuno cercò di sollevargli la testa, e Kerwin pensò che quella che stava per saltare doveva essere la sua, perché sentì un forte dolore e perse di nuovo i sensi.
Dopo qualche tempo, in mezzo al dolore notò anche una luce bianca e abbagliante. Qualcuno gli fasciava la testa; al suo gemito di dolore, spense la lampada.
Kerwin si guardò attorno. Era su un lettino sterile, in una stanza sterile, e un uomo in camice bianco, con il caduceo sul petto — lo stemma del reparto Medicina e Psicologia — si curvava su di lui.
«Tutto bene, adesso?»
Kerwin fece per annuire, ma quando mosse la testa sentì di nuovo un forte dolore. Il medico gli diede un bicchiere di plastica, pieno di un liquido rosso; aveva un sapore pungente, ma, dopo che lo ebbe bevuto, la testa non gli fece più male.
«Che cosa mi è successo?» chiese Kerwin.
Proprio in quel momento, Johnny Ellers si affacciò sulla soglia. Aveva l'aria indignata. «Tu lo chiedi? Io mi sono addormentato, e tu ti sei fatto aggredire. Neppure un pivellino alla sua prima missione farebbe un'idiozia simile! E perché diavolo sei andato nella zona proibita? Non hai visto la piantina?»
In qualche modo, Ellers dava l'impressione di volerlo avvisare. Kerwin rispose lentamente: «L'ho vista, ma devo essermi perduto».
Chissà se tutto quel che ricordava era successo veramente? I suoi vagabondaggi vestito da darkovano, la gente che lo aveva scambiato per un altro? O erano allucinazioni?
«Che giorno è?»
«La mattina dopo», rispose Ellers.
«Dove è successo? Dov'ero, quando mi hanno colpito?»
«Solo Dio lo sa», rispose il medico. «Evidentemente, qualcuno l'ha trovata e si è allarmato; l'hanno portata fino alla piazza dello spazioporto e l'hanno lasciata lì verso l'alba.» Il medico si allontanò, e Kerwin scoprì che la testa gli faceva male a muovere gli occhi; perciò, tornò a dormire. Ragan, la ragazza della bettola, gli aristocratici dai capelli rossi, lo strano incontro all'hotel. In un solo giorno, davvero un mucchio di avventure.
E non gli venne in mente che forse le vere avventure dovevano ancora cominciare.
Aveva ancora un vistoso cerotto sulla testa, l'indomani, quando si presentò al Legato; questi lo guardò senza molto entusiasmo.
«Mi servono medici e tecnici, e chi mi mandano? Un esperto di radiofonia! Diavolo, so che non è colpa sua; mi mandano la gente che hanno. Leggo che è stato lei stesso a chiedere il trasferimento, e perciò spero di poterla tenere per un po'. Di solito mi arriva personale di prima nomina che cerca di farsi trasferire non appena ha maturato un'anzianità sufficiente. E mi hanno detto che si è preso una botta in testa mentre girava nella Città Vecchia. Non sa che non bisogna andarci?»
Kerwin rispose solo: «Mi ero perduto, signore».
«Ma che cosa è andato a fare in quella zona? Laggiù non c'è niente di interessante.» Lo squadrò, aggrottando la fronte. «Che cosa intendeva fare, esplorare il pianeta da solo?»
Kerwin disse: «Sono nato qui, signore». Se dovevano fare delle discriminazioni contro di lui a causa della sua nascita, che lo facessero fin dall'inizio. Ma il Legato si limitò a un cenno della testa.
«Allora, forse può essere una fortuna», disse. «Darkover non è una destinazione molto richiesta, ma se lei è di qui, può darsi che le piaccia rimanerci. Più che a me, in ogni modo. Io non sono un volontario, deve sapere. Mi sono trovato dalla parte politica sbagliata, e si potrebbe dire che la mia permanenza quaggiù è una specie di condanna per il mio errore. Se invece a lei piace il posto, potrebbe fare carriera; infatti, come le dicevo, in genere nessuno si ferma a lungo su questo pianeta. Lei pensa che il luogo le piacerà?»
«Non lo so», rispose Kerwin. «Però, sentivo il bisogno di ritornare qui.» E aggiunse, poiché gli pareva di potersi fidare di quell'uomo: «È quasi un bisogno fisico. Il desiderio di rivedere quel che avevo visto da bambino».
Il Legato annuì. Non era giovane, e quel genere di discorsi doveva mettergli tristezza. «Come se non lo sapessi!» disse. «Sentire di nuovo il profumo della nostra aria, rivedere il colore del nostro sole. Capisco benissimo. Sono via da quarant'anni, e in questo periodo ho rivisto Alpha due sole volte, anche se spero di passare la vecchiaia laggiù. Come diceva il poeta? Anche se le stelle sono numerose come i fili d'erba, non c'è un altro pianeta bello come il nostro...»S'interruppe. «Nato qui, eh? Come si chiamava sua madre?»
A Kerwin tornò in mente la ragazza del bar. Comunque, suo padre gli aveva dato la cittadinanza e lo aveva fatto accogliere all'orfanotrofio.
«Non lo so, signore. È una delle cose che speravo di scoprire.»
«Kerwin», rifletté il Legato. «Mi sembra di avere già sentito questo nome. Sono qui solo da quattro anni, ma se suo padre si è sposato qui, in archivio ci deve essere la registrazione. Anche all'orfanotrofio hanno i loro archivi: laggiù, non prendono chiunque; i normali trovatelli passano ai Gerarchi cittadini. Inoltre, c'è il fatto che l'hanno rimandata sulla Terra, e questo è molto raro. In genere, gli ospiti dell'orfanotrofio restano qui e poi lavorano per il Dipartimento come interpreti o come rilevatori, dovunque occorra una persona bilingue.»
«Pensavo di essere darkovano.»
«Non credo; il colore dei capelli. Tra noi terrestri ci sono molte persone dai capelli rossi: gente con un eccesso di adrenalina, che ama la vita avventurosa. Invece, tranne certe eccezioni, i darkovani dai capelli rossi sono rari.»
Kerwin avrebbe voluto parlargli della sua esperienza, quando in una sola notte aveva incontrato almeno quattro darkovani dai capelli rossi, ma si accorse di non poterlo fare. Alla lettera; era come se avesse la bocca tappata. Perciò, si limitò ad ascoltare il Legato che gli parlava di Darkover.
«È uno strano pianeta», diceva. «Noi ne occupiamo qualche pezzetto per le nostre esigenze commerciali, la Città Terrestre qui e a Caer Donn, lo spazioporto e il campo di Port Chicago, come su altri pianeti. Lasciamo in pace il governo locale. Di solito, quando gli abitanti dei pianeti vedono quel che possiamo dare loro, tecnologie avanzate e commerci, appartenenza a una civiltà galattica, cominciano a stancarsi delle loro condizioni di arretratezza e delle gerarchie, autocrazie e monarchie, e chiedono di entrare nell'Impero. Noi siamo qui per permettere i plebisciti e per proteggere il diritto all'autodeterminazione. È quasi una formula matematica. Un mondo di classe D come questo può resistere per un centinaio di anni, ma poi chiede l'annessione. Invece, Darkover non segue lo schema degli altri, e noi non ne capiamo bene il motivo.»
Batté il pugno sulla scrivania. «Dicono di non avere bisogno di quel che possiamo offrire loro. Oh, a volte commerciano con noi; ci danno argento, platino, gemme, o piccoli cristalli matrice — li conosce, vero? — in cambio di medicine, e di attrezzature da montagna, utensili di metallo, specialmente. Hanno pochi metalli. Ma non mostrano interesse per le nostre tecnologie e le nostre industrie, non ci hanno mai chiesto consiglieri, non hanno neppure un sistema commerciale.»
Kerwin conosceva già quei particolari; li aveva letti durante il viaggio, nella documentazione che gli era stata data. Chiese: «Parla del governo o della gente comune?»
«Di tutt'e due», rispose il Legato, alzando le spalle. «Il governo è un po' difficile da individuare. Anzi, all'inizio pensavano che non esistesse. Diavolo, del resto, è proprio come se non ci fosse!»
I darkovani, a detta del Legato, erano governati da una casta che viveva in isolamento; un'aristocrazia incorruttibile e, soprattutto, inavvicinabile. Un mistero.
«Una delle poche cose che comprano da noi sono i cavalli»,continuò il Legato. «Cavalli. Se lo immagina? Noi offriamo loro aeroplani, fuoristrada, macchine per la costruzione di strade... e loro comprano cavalli. Mi dicono che ce ne sono mandrie enormi, nelle pianure di Valeron e di Arilinn, e nei monti Kilghard. Dicono di non avere interesse per la costruzione di strade, e da quel che ho visto del territorio, costruirle non sarebbe facile, ma noi abbiamo offerto loro l'assistenza tecnica necessaria, ed essi l'hanno rifiutata. Di tanto in tanto comprano un aeroplano, ma Dio solo sa che cosa ci facciano. Non hanno piste d'atterraggio e non comprano il carburante, ma gli aeroplani li comprano.» Si portò la mano al mento.
«È uno strano posto. Io non sono mai riuscito a capirlo. A dire il vero, di capirlo non m'importa molto. Chissà, forse potrebbe capirlo lei, un giorno o l'altro.»
Quando poté di nuovo uscire, l'indomani, Kerwin si recò nei quartieri più rispettabili della città, dove si trovava l'orfanotrofio. Ricordava perfettamente la strada e l'edificio: una costruzione bianca, senza decorazioni, posta in fondo a un breve viale alberato; sull'architrave della porta si scorgeva lo stemma della Terra, il razzo e la stella. Il cortile era vuoto, ma da una finestra si scorgeva un gruppo di piccoli allievi a lezione. Da qualche altra parte dell'edificio giungeva il rumore di bambini che giocavano.
Nel grande ufficio che lo aveva atterrito durante l'infanzia, Kerwin attese l'arrivo di una donna rispettabilmente vestita alla moda darkovana — gonna lunga fino a terra, giacca foderata di pelliccia — che gli chiese in tono amichevole che cosa poteva fare per lui.
Kerwin le spiegò le sue intenzioni, e la donna gli tese cordialmente la mano. «Così, lei era uno dei nostri ragazzi? Dev'essere stato prima del mio arrivo. Come si chiama?»
«Jefferson Andrew Kerwin, junior.»
La donna aggrottò la fronte, sforzandosi di ricordare. «Può darsi che abbia visto il nome in archivio, ma in questo momento non ricordo. In che anno è andato via? Quando aveva tredici anni? Strano. Di solito i nostri ragazzi rimangono fino a diciannove o vent'anni; poi, dopo i test, troviamo loro un lavoro.»
«Sono stato sulla Terra, dalla famiglia di mio padre.»
«Allora, avremo certamente i suoi dati, Jeff. Se è noto il nome dei genitori...» S'interruppe. «Naturalmente, cerchiamo di avere la documentazione completa, ma a volte abbiamo solo il nome di uno dei due; ci sono state alcune...» cercò la parola adatta, «...unioni sfortunate...»
«Vuole dire che se mia madre fosse stata una delle ragazze dei bar dello spazioporto, mio padre non si sarebbe preoccupato di fare il suo nome?»
La donna annuì, e fece una smorfia di fronte a un modo di parlare così esplicito. «Succede. O una delle nostre ragazze può mettere al mondo un figlio senza preoccuparsi di farci sapere il nome del padre, anche se questo non è il suo caso. Può aspettare un istante?» Entrò in un altro ufficio, e Kerwin vide alcune macchine per scrivere e una ragazza darkovana in uniforme terrestre. Dopo qualche minuto, la donna fece ritorno e disse, sbrigativamente:
«Be', signor Kerwin, pare che non ci sia nessun nome come il suo, nei registri dell'orfanotrofio. Sarà stato qualche altro pianeta.»
Kerwin la fissò, stupito. «Ma è impossibile», disse. «Sono vissuto qui fino a tredici anni. Dormivo nella Camerata 4, il nome della direttrice era Rosaura. Giocavo a pallone là dietro.» Indicò la direzione del campo.
La donna scosse la testa. «Sarà, ma non abbiamo alcuna documentazione su di lei, signor Kerwin. È possibile che lei sia stato registrato con un altro nome?»
Kerwin scosse la testa. «No, sono sempre stato chiamato Jeff Kerwin.»
«Inoltre, non c'è documentazione di un ragazzo inviato sulla Terra all'età di tredici anni. Sarebbe una cosa molto anormale, non la nostra solita procedura, e dovremmo trovarne le tracce nell'archivio.»
Kerwin strinse i pugni, ma si impose di mantenere la calma. «Che cosa intende dire? Che non ci sono documenti che mi riguardino? In nome di Dio, che ragione avrei di mentire? Le ripeto che sono stato qui fino ai tredici anni, pensa che non lo sappia? Maledizione, posso provarlo!»
La donna fece un passo indietro. «La prego...»
«Senta», insistette Kerwin, in tono ragionevole, «ci deve essere stato un errore. Che il nome sia stato scritto in modo diverso? Può controllare meglio?» e le ripeté il proprio nome, lettera per lettera.
Ma la donna disse, in tono gelido: «Ho controllato anche tre o quattro possibili varianti. Mi spiace, ma non c'è nessun Kerwin».
«Che genere di archivi avete?» chiese lui. «Per nome o per impronte digitali?» Si diede dello sciocco per non averci pensato prima. Un nome poteva essere scritto male, ma le impronte digitali non cambiavano.
«Se pensa che la cosa possa convincerla, e se conosce i computer...» disse la donna, alzando le spalle.
«Ho lavorato per sette anni con un KS04.»
«Allora, signore», continuò la donna, in tono glaciale, «la invito a controllare di persona. Se pensa che il suo nome possa essere stato scritto in modo erroneo, a tutti i nostri bambini prendiamo anche le impronte digitali.» Gli porse uno degli appositi fogli sensibili e Kerwin vi appose l'impronta delle dieci dita. Il foglio finì nella feritoia del lettore ottico e la macchina lo analizzò.
Poi, nel giro di pochi istanti, la macchina stampò la scheda con la risposta. Infischiandosene dell'occhiataccia che la donna gli rivolse, Kerwin raccolse la scheda. Ma non appena la lesse, sentì un nodo allo stomaco. Sulla scheda c'era una sola riga di stampa: Soggetto sconosciuto. Documentazione inesistente.
La donna gli sfilò dalle dita il cartoncino. «Come vede, non le abbiamo mentito», gli disse. «Ora la prego di lasciarci.» Il tono suggeriva che se Kerwin non se ne fosse andato via da solo, lei avrebbe chiamato qualcuno per cacciarlo via.
Kerwin si appoggiò al tavolo e disse, disperato: «Come posso essermi sbagliato? C'è un altro orfanotrofio su Darkover? Io vivevo qui...»
Lei lo guardò con una sorta di pietà. «No, signor Kerwin», gli disse. «Perché non torna al Quartier Generale e non passa dalla Sezione 8? Se c'è stata una... confusione... forse possono aiutarla.»
Sezione 8. Medicina e Psicologia. Kerwin inghiottì a vuoto e si allontanò senza protestare. La donna l'aveva preso per pazzo, e lui non poteva darle torto. Dopo quel che aveva scoperto, cominciava a temerlo anche lui, e si sentiva girare la testa.
Qualcuno mentiva. C'era una congiura contro di lui...
Era impossibile che lui si confondesse, si disse, mentre usciva. Ricordava perfettamente l'ingresso dell'edificio, le finestre, l'albero su cui si era arrampicato tante volte, il punto dove era caduto e si era sbucciato il ginocchio, ricordava che lo avevano portato in infermeria e che gli avevano dato dei punti, e l'ago da sutura e l'infermiere lo avevano talmente incuriosito che si era dimenticato perfino di piangere. Quello era il suo primo ricordo dell'orfanotrofio.
E che cosa ricordava, prima di entrare laggiù? Per quanto si sforzasse, ricordava solo una donna dalla voce gentile e un uomo dai capelli rossi, vestito di verde e di giallo oro, che camminava in un corridoio di pietra lucida come marmo; da qualche parte, nelle vicinanze, c'era una stanza illuminata da una forte luce azzurrina... poi Kerwin era all'orfanotrofio, nell'aula, o a giocare in cortile, con altri dieci ragazzi della sua età che portavano i calzoncini blu e la camicia bianca. A dieci anni era innamorato di un'inserviente darkovana chiamata Maruca, che lo chiamava Tallo,nonostante la proibizione, e che lo aveva curato quando aveva avuto la febbre.
No, non potevano dirgli che era pazzo. Ricordava troppi particolari. Doveva andare al Quartier Generale, ma non al reparto medico: all'archivio. Laggiù avevano la documentazione di tutti coloro che avevano lavorato al servizio dell'Impero. Laggiù sapevano.
L'addetto all'archivio fece la faccia leggermente sorpresa quando Kerwin gli chiese di controllare, e Kerwin non poté dargli torto. Dopotutto, nessuno andava in archivio a chiedere la propria documentazione, a meno che non intendesse chiedere un trasferimento. Kerwin si inventò una scusa.
«Sono nato qui. Non ho mai saputo chi fosse mia madre, e può darsi che qui ci sia il mio atto di nascita.»
L'uomo gli prese le impronte digitali e batté i pulsanti, con disinteresse. Dopo un poco, la stampante iniziò a ticchettare e in breve il fogHo fu pronto. Kerwin lo prese e lo lesse, dapprima con soddisfazione, perché era chiaramente la documentazione completa, poi con incredulità.
Kerwin, Jefferson Andrew jr. Razza bianca, sesso maschile. Cittadinanza terrestre. Origine Denver. Stato civile celibe. Capelli rossi. Occhi grigi. Pelle chiara. Note caratteristiche: età anni 20, apprendista Comando Terrestre. Qualifica soddisfacente. Potenziale elevato.
Trasferimento età anni 22. Diploma in Comunicazioni, funzionario del consolato di Megaera. Qualifica eccellente. Promozioni regolari e rapide.
Trasferimento età anni 26, grado esperto, Legazione Phi Coronis IV. Qualifica eccellente, raccomandato per incarichi speciali. Due demeriti per rissa nel quartiere indigeno. Stato civile celibe. Potenziale elevato, ma instabile a causa ripetute domande di trasferimento.
Trasferimento età anni 29, Cottman IV, Darkover (richiesta per motivi personali non specificati). Richiesta approvata, si sconsigliano ulteriori trasferimenti. Qualifica eccellente e valido ma con difetti di stabilità della personalità.
Non c'era altro. Kerwin aggrottò la fronte. «Ehi, queste sono le mie note caratteristiche, ma io volevo l'atto di nascita. Sono nato su Cottman IV e dovrebbero esserci.»
«Questa è la sua documentazione ufficiale, Kerwin. Nel computer non c'è altro.»
«Non c'è l'atto di nascita?»
L'uomo scosse la testa. «Se lei fosse nato all'esterno della Zona Terrestre, e sua madre fosse stata una darkovana, la nascita non sarebbe stata registrata. Non so che registrazioni tengano laggiù...» tese la mano in direzione delle montagne, «...ma non compaiono nel nostro computer. Cercherò nel registro delle nascite, e poi nelle borse di studio per gli orfani. Se l'hanno rimandata sulla Terra a tredici anni, ci deve essere la registrazione nel reparto 12, sotto la Legge per il Rimpatrio degli Orfani di Dipendenti.» Pigiò tasti per qualche decina di secondi, poi scosse la testa.
«Guardi lei», disse. Continuava a comparire la scritta: Nominativo non registrato.
«Ed ecco tutti gli atti di nascita dei Kerwin: Evelina Kerwin, figlia di una delle nostre infermiere, morta all'età di sei mesi. Inoltre c'è un Henderson Kerwin, anni 45, meccanico dello spazioporto di Thendara, morto per essere stato esposto alle radiazioni in un incidente. E tra gli orfani trasferiti c'è solo un certo Teddy Kerlayne, inviato su Delta Ophiuci quattro anni fa.»
Meccanicamente, Kerwin fece a pezzi il foglio, poi strinse i pugni.
«Ancora una cosa», disse. «Provi mio padre, Jefferson Andrew Kerwin, senior.» Sulle note caratteristiche del padre doveva comparire il matrimonio o l'unione con la madre di cui Jeff ignorava il nome, altrimenti non avrebbe potuto dare al figlio la cittadinanza. Kerwin conosceva bene gli aspetti burocratici di quel tipo di adozione, perciò chiese: «Controlli quando mio padre ha compilato il modulo 784-D. Dovrebbe risultare».
L'uomo alzò le spalle. «Amico, lei è duro da convincere. Se suo padre avesse compilato un 784, la cosa sarebbe segnata sulle sue note caratteristiche.»
Ma tornò a premere i pulsanti, e fissò per qualche istante il video, aggrottando la fronte. Poi si girò verso Kerwin. «Spiacente, ma non abbiamo i dati. Il solo Kerwin di cui possediamo i dati è lei.»
Kerwin lo fissò con irritazione. «Non ci credo, lei ha letto qualcosa sullo schermo. Mi faccia vedere!»
L'uomo alzò le spalle. «Guardi.» Ma nel frattempo lo schermo era ridiventato nero.
Irritato, Kerwin chiese: «Che cosa vuole dire, maledizione? Che io non esisto?»
«Senta», disse l'uomo, «si può cancellare un nome da un elenco, ma se riesce a trovarmi qualcuno che può cancellare i dati dai computer del comando, io le pago quello che vuole. Secondo le nostre registrazioni, lei è venuto su Darkover per la prima, volta tre giorni fa. Adesso vada a sentire uno psicologo e mi lasci stare.»
Mi crede così ingenuo? Le registrazioni possono essere trasferite in archivi segreti da chiunque abbia il codice d'accesso. Qualcuno doveva avere nascosto quei dati, in modo che lui non potesse leggerli.
Ma perché l'aveva fatto?
O era così, o Kerwin era pazzo, come aveva pensato la direttrice dell'orfanotrofio.
Kerwin infilò la mano in tasca e ne tolse un biglietto di banca.
«Provi di nuovo con il nome di mio padre», disse.
L'addetto intascò in fretta il denaro, e Kerwin ebbe la conferma dei suoi sospetti. Gli aveva dato un grosso biglietto, ma ne valeva la pena, per avere la conferma di non essere pazzo. «Va bene», mormorò l'uomo, «ma spero che non controllino le registrazioni delle richieste, potrebbero licenziarmi. E qualunque sia la risposta, basta domande. Intesi?»
Kerwin, questa volta, gli guardò le mani, mentre batteva i tasti. Poi lo schermo cominciò a lampeggiare. «La richiesta non è stata accolta», spiegò il tecnico.
Sullo schermo apparve una scritta: Informazioni riservate. Dare un codice di priorità e il nome del funzionario che ha autorizzato la richiesta.
Le lettere si spensero, e Kerwin, dopo qualche istante, prese a scuotere la testa.
«Allora?» chiese il tecnico. Kerwin capì che voleva altro denaro per cercare il codice d'accesso, ma era denaro perso: tanto valeva che Jeff se lo cercasse da solo. Comunque, adesso aveva la prova di essersi imbattuto in un mistero.
Non sapeva che mistero fosse, ma adesso capiva anche quel che doveva essere successo all'orfanotrofio.
Si allontanò dalla sala degli archivi e pensò che era stato attirato su Darkover... ma solo per trovarvi altri misteri. Che lui intendeva risolvere.
Solo, non sapeva da dove cominciare.
CAPITOLO 5
I TECNICI DELLE MATRICI
Per qualche giorno, lasciò perdere tutto. Aveva da impratichirsi del nuovo lavoro, che, per quanto semplice e simile a quello che aveva svolto in precedenza, richiedeva tutta la sua attenzione. Era un ramo altamente specializzato del reparto Comunicazioni: il controllo e la messa a punto del sistema di comunicazioni radio tra il Quartier Generale e il resto della Zona Terrestre. Era un lavoro lungo e noioso, più che difficile, e spesso Kerwin si chiese perché utilizzassero personale terrestre venuto dall'esterno, anziché servirsi di tecnici locali. Quando però lo chiese a uno dei colleghi, l'uomo alzò le spalle. «I darkovani non riescono a imparare. Non sono portati per gli argomenti tecnici, non valgono niente per questo genere di cose.» Indicò le macchine che stavano esaminando. «C'era da aspettarselo.» Kerwin scosse la testa, incuriosito. «Vuoi dire che è una questione di razza, una differenza della loro mente?»
L'altro lo guardò con sospetto, chiedendosi se non avesse fatto una gaffe. «Tu sei darkovano, vero? Ma sei cresciuto in mezzo ai terrestri... sei abituato a stare in mezzo alle macchine e alla tecnica. Invece, a Darkover, non hanno mai avuto niente di analogo.» Aggrottò la fronte. «E neppure lo vogliono.»
Kerwin rifletté spesso su quelle parole, mentre riposava nella sua stanza del quartiere per scapoli o mentre beveva un bicchiere, da solo, in qualche bar dello spazioporto. Anche il Legato gli aveva detto che a Darkover erano insensibili alle attrattive della tecnica terrestre e che si tenevano lontani dalla cultura e dai commerci dell'Impero. Nonostante la loro patina di civiltà, i darkovani erano dunque dei barbari? O qualcosa di meno ovvio, di più misterioso?
Durante le ore in cui non lavorava, spesso si recò nella Città Vecchia. Tuttavia, non indossò più il mantello darkovano, e si assicurò che il cappello nascondesse i capelli rossi. Aveva bisogno di tempo per riflettere su quanto gli era successo, per studiare la sua mossa successiva.
Primo. All'orfanotrofio non c'era traccia di un ragazzo chiamato Jefferson Andrew Kerwin, junior, inviato sulla Terra, dai nonni paterni, all'età di tredici anni.
Secondo. I computer del Quartier Generale si rifiutavano di fornire dati su Jefferson Andrew Kerwin, senior.
Kerwin continuò ad analizzare tutti gli elementi che questi due fatti potevano avere in comune. Un altro elemento da tenere presente, inoltre, era che il computer del Quartier Generale era stato predisposto in modo tale da non fornire alcuna informazione su suo padre: se non gli si rivolgeva la domanda esatta, non si aveva neppure notizia della sua esistenza.
Dopo una ventina di giorni, però, cominciò a notare la presenza di Ragan nei locali frequentati da lui stesso, ma all'inizio non se ne preoccupò. Nel caffè dello spazioporto, quando vedeva Ragan a uno dei tavoli, lo salutava e poi procedeva verso il banco. Dopotutto, era un locale pubblico e aveva i suoi habitué. A quel punto, lo stesso Kerwin poteva ormai considerarsi tale.
Ma quando, a causa di un'emergenza, dovette fermarsi allo spazioporto oltre il suo normale orario di lavoro e, sceso al bar, vi trovò anche Ragan, cominciò a chiedersi perché il piccolo mezzo-sangue fosse sempre laggiù. Incuriosito, prese a scendere al bar alle ore più strane, e vi trovò Ragan. Poi, quando prese a frequentare occasionalmente altri bar, ne ebbe la certezza: quell'uomo lo seguiva.
"Seguirlo", anzi, non era la parola esatta: Ragan cercava di farsi notare da lui, come se intendesse proporgli qualcosa, ma aspettasse che fosse Kerwin a chiederlo.
Ma che cosa? Forse Ragan era collegato in qualche modo al mistero della sparizione dei dati. Perciò, Kerwin decise di risolvere la cosa una volta per tutte: sfilò il cristallo dal suo contenitore e lo posò sul tavolo, davanti a Ragan. «Me ne ha parlato lei, qualche settimana fa, se ben ricordo... a meno che non fossi completamente ubriaco. Ho l'impressione che lei la sappia lunga, su queste cose. Avanti, me ne parli.»
Ragan si guardò attorno, con sospetto. «Le ho detto quello che avrebbe potuto dirle qualsiasi darkovano. Chiunque sia vissuto per qualche tempo sul pianeta è in grado di riconoscere una pietra matrice.»
«Comunque, mi dica quello che sa.»
Ragan indicò la pietra, senza toccarla. «Che cosa vuole sapere? Come si usa?»
Kerwin rifletté per un istante sulla proposta, ma poi decise per il no; almeno per il momento, non gli interessava il tipo di trucchetti che aveva visto a fare a Ragan... fondere il vetro e cose del genere, qualunque fossero. «Soprattutto», rispose, «sono curioso di sapere da dove vengono, e come è possibile che sia giunto a possederne una.»
«Non è facile rispondere», rispose il mezzo-sangue, storcendo la bocca. «Non ne esistono molte... al massimo, ce ne sarà qualche migliaio, di queste dimensioni.» Cercava di darsi un tono indifferente, ma Kerwin notò che era molto teso. «Alcuni psicologi del Quartier Generale Terrestre hanno in corso esperimenti con quelle piccole. Come le dicevo, probabilmente le darebbero un bel premio, se cedesse la sua.»
«No!» rispose Kerwin, automaticamente, senza neppure prendere in considerazione l'ipotesi.
«Allora, perché si è rivolto a me?» chiese Ragan.
«Perché da qualche tempo la incontro dovunque vada, e non credo che lei lo faccia perché è ansioso di avere la mia compagnia. Lei sa qualcosa che io non conosco, e per prima cosa potrebbe dirmi per chi mi ha scambiato, il giorno che ci siamo conosciuti al bar dell'astroporto. E non è successo solo a lei, perché tutte le persone che ho incontrato quella sera mi hanno preso per qualcun altro. Quella stessa sera mi hanno dato un colpo in testa e mi hanno lasciato a terra, in un vicolo...»
Ragan rimase a bocca aperta, e Kerwin capì che era sinceramente sorpreso.
«...e sospetto che mi abbiano colpito perché assomiglio a qualche persona...» continuò Jeff.
«No, Kerwin», rispose il mezzo-sangue. «Si sbaglia. Tutt'al più, la somiglianza sarebbe servita a proteggerla. È una situazione molto complicata. Ascolti», disse, «io non ho niente contro di lei. Però, posso dirle che si tratta dei suoi capelli rossi...»
«Be'», obiettò Kerwin, «anche su Darkover ci sono persone dai capelli rossi. Ne ho conosciute alcune...»
«Ne ha conosciute?» chiese Ragan, sollevando le sopracciglia. «Lei?»,scosse la testa e rise. «Senta, se lei è fortunato, ha preso i capelli rossi dalla sua parte terrestre, ma posso dirle una cosa: se fossi in lei, salirei sulla prima nave che lascia il pianeta, e non mi fermerei finché non fossi arrivato all'altro capo dell'Impero. Questo è il mio consiglio, e glielo do molto seriamente.»
Kerwin scosse la testa. «Allora, la preferisco quando scherza.» Rivolse un cenno alla cameriera perché portasse due bicchieri. «Ascolti, Ragan», disse poi, quando la ragazza se ne fu andata, «voglio saperlo a ogni costo... anche a costo di mettermi il mio mantello darkovano e di andare nella Città Vecchia...»
«Per farsi tagliare la gola?» chiese il mezzo-sangue.
«Lei stesso mi ha appena detto che i capelli rossi mi proteggeranno. No, andrò nella Città Vecchia e fermerò tutti quelli che incontrerò per strada, chiedendo loro se assomiglio a qualcuno di loro conoscenza. E, presto o tardi, qualcuno finirà per dirmelo.»
«Lei non si rende conto del pericolo che corre.»
«Certo, a meno che non sia lei stesso a dirmelo», ribatte Kerwin.
«Lei è un pazzo e un ostinato», disse Ragan. «Comunque», aggiunse, alzando le spalle, «il collo è suo. Che cosa vorrebbe sapere da me? E che cosa ci guadagnerei?»
Adesso Kerwin si sentiva a proprio agio. Si sarebbe insospettito, se l'astuto mezzo-sangue si fosse offerto di aiutarlo disinteressatamente.
«Non lo so neppure io», spiegò, «ma lei deve avere qualcosa in mente, se mi ha fatto la posta per tanto tempo, in attesa che le facessi domande. Denaro? Sa anche lei qual è lo stipendio di un dipendente dell'Impero. C'è da sopravvivere, ma non certo da scialare. Però», aggiunse, con una smorfia, «penso che lei si aspetti di guadagnare qualcosa, grazie alle informazioni che può darmi. Perciò, vediamo che cosa può dirmi, e cominciamo da questo.» Sollevò la pietra matrice. «Come faccio ad avere informazioni su questa gemma?»
Ragan scosse la testa. «Le ho dato il miglior suggerimento che potessi darle; non voglio avere a che fare con quel genere di cose. Se vuole saperne di più, ci sono meccanici delle matrici, legalmente autorizzati, anche nella Zona Terrestre. Non possono fare molto, ma possono darle qualche risposta. Comunque, il mio consiglio resta sempre lo stesso: lasci perdere, vada il più lontano possibile. Lei non ha la minima idea del pasticcio in cui si andrebbe a cacciare.»
Di tutto questo, Kerwin udì soltanto la strana informazione che anche nella Zona Terrestre esistevano "meccanici" delle matrici, legalmente autorizzati. «Pensavo che fosse un grande segreto», esclamò, «e che i terrestri ne fossero completamente all'oscuro!»
«Gliel'ho già detto: acquistano le matrici piccole. Come la mia. Quelle che tutti sono in grado di usare. Come faccio io, per i piccoli trucchetti che le ho mostrato quella volta.»
«Che lavoro fanno i meccanici delle matrici?» chiese Kerwin.
Ragan alzò le spalle. «Mettiamo che lei abbia dei documenti da tenere in cassaforte, e che non si fidi di depositarli presso un banchiere; allora lei compra una delle piccole matrici — sempre che abbia i soldi, perché sono carissime, anche quelle piccole come la mia — e va dal meccanico perché la metta in fase con il suo schema mentale personale; le sue onde cerebrali, che sono diverse per ciascuno di noi, come le impronte digitali. Quando lei chiude la cassaforte, la matrice sigilla la porta in modo che niente al mondo, neppure un maglio o un'esplosione nucleare, possa aprirla. Per aprirla occorrerà un suo ordine diretto, una specie di "apriti sesamo" mentale. Lei formula l'ordine nella sua mente: apriti,e la cassaforte si apre. Non ci sono combinazioni da ricordare, non ci sono numeri segreti del conto bancario, niente di niente.»
Kerwin zufolò. «Che invenzione! Adesso che ci penso, mi vengono in mente alcuni modi assai pericolosi di usare queste pietre.»
«Certo», confermò Ragan, con aria cupa. «Non conosco molto bene la storia di Darkover, ma i darkovani non lasciano uscire dal pianeta le matrici più grosse. Ma anche con le piccole si potrebbero fare dei gravi danni, benché possano solo usare una piccola quantità d'energia. Supponiamo per esempio che lei abbia un concorrente in affari che possiede macchinari molto sensibili. Lei si concentra sul suo cristallo... anche uno piccolo come il mio... e innalza la temperatura di un termostato, per esempio di trecento gradi centigradi, e fonde i circuiti più importanti. Oppure vuole eliminare il concorrente? Paga uno dei meccanici delle matrici meno scrupolosi e gli fa sabotare tutti gli impianti elettrici, glieli mette in corto circuito; poi, lei sarà sempre in grado di dimostrare di non essersi mai avvicinato a lui. Penso che abbiano una paura del diavolo, su al Quartier Generale, che i darkovani gli giochino qualche tiro con le matrici... che so, gli cancellino le memorie dei computer, gli manipolino il centro di pilotaggio delle astronavi. I darkovani non hanno motivo di compiere atti come questi, ma per il solo fatto che esiste una tecnologia del genere, i terrestri vorrebbero sapere come funziona e come ci possa proteggere da essa.»
Tornò a sorridere, scuotendo la testa. «Per questo dicevo che probabilmente sarebbero disposti a darle una piccola fortuna, o ad assegnarle la posizione da lei voluta, se consegnasse loro la sua. Non ne ho mai vista una così grossa.»
A Kerwin tornò in mente la hostess terrestre, sulla nave che lo portava via: i tentativi della donna di portargli via la matrice, e il suo pianto e le sue convulsioni. «Allora, mi sa dire come ho fatto a procurarmene una così grossa?»
Ragan si strinse nelle spalle. «Kerwin, amico mio, se sapessi la risposta, andrei io al quartier generale a farmi rilasciare un assegno in bianco. Ma, purtroppo, non sono un indovino.»
Kerwin rifletté per qualche istante su quelle parole. Poi disse: «Forse, quello che mi occorre è proprio un indovino o qualcosa del genere. Be', ho sentito dire che Darkover è pieno di gente che legge nel pensiero e predice il futuro.»
«Le ripeto che lei non si rende conto del pericolo», disse Ragan. «Comunque, se vuole correre il rischio, conosco una donna, nella Città Vecchia, che una volta era una... no, lasciamo perdere. Se c'è una persona in grado di aiutarla, Kerwin, è proprio quella donna. Le dia questo.» Si frugò nelle tasche e ne trasse un foglietto di carta, su cui scrisse alcune parole. «Io conosco molta gente nella zona darkovana: è così che mi guadagno da vivere. Però, l'avverto; le costerà una bella somma. Quella donna corre un grave rischio, e vorrà essere pagata per correrlo.»
«E lei?» chiese Kerwin.
Ragan rise: una risata secca, imbarazzata. «Per un nome e un indirizzo? Diavolo, lei mi ha offerto da bere, e forse ho un vecchio conto in sospeso con un darkovano dai capelli rossi. Buona fortuna, Tallo.»Alzò la mano in segno di saluto e se ne andò.
Kerwin lo guardò allontanarsi, e riprese a porsi domande. In che luogo l'aveva indirizzato? Lesse la via, e si rese conto che si trovava nel quartiere più malfamato di Thendara, nella Città Vecchia, rifugio di ladri, protettori e persone ancor peggiori. Non aveva alcuna voglia di presentarsi laggiù vestito da terrestre. Anzi, non aveva voglia di andare laggiù, e basta. Anche da bambino, se ne era sempre tenuto alla larga.
Alla fine, si decise a rivolgere alcune domande, cautamente, sui meccanici delle matrici, e venne a scoprire che svolgevano la loro attività in modo del tutto aperto; trovò il nome di tre di loro, autorizzati e controllati dalle autorità terrestri, e vide che abitavano nella parte più rispettabile della città. Ne scelse uno a caso.
Quando giunse all'indirizzo cercato, vide che si trovava in un quartiere di grandi ville circondate da muri di pietra chiara; c'erano anche giardini, edifici pubblici, e una grande costruzione senza finestre sulla strada, con un solo ingresso e l'insegna Ordine delle Rinunciatarie — Casa Capitolare (Kerwin si chiese se fosse un convento o qualcosa del genere) e le strade erano larghe e ben tenute, di uno strano materiale che assomigliava all'asfalto. In una piazza vuota, una squadra di uomini lavorava alla costruzione di un edificio, con secchi di calce, martelli e seghe. Più avanti c'era un mercato, con donne intente a contrattare o ad acquistare pesce fritto e dolci dai banchi dei rosticceri. Accanto a ciascuna c'erano uno o due bambini che si tenevano alla gonna. Donne che spettegolavano, bambini che giocavano a rincorrersi o che facevano i capricci per avere il dolce: piccoli bozzetti di vita quotidiana che parvero a Kerwin quanto mai rassicuranti, poiché gli mostravano che la vita di tutti i giorni proseguiva normalmente. I terrestri, pensò Kerwin, definivano barbara quella cultura perché non aveva una fitta trama commerciale e non si serviva di macchine. I darkovani non avevano aerorazzi, grattacieli e ferrovie; ma non avevano neppure acciaierie fumose, puzzolenti raffinerie di prodotti chimici, o in genere quelli che un poeta della Terra aveva chiamato "i neri mulini di Satana", e neppure buie miniere da riempire di schiavi o di macchinari robot. Kerwin rise tra sé: si era lasciato prendere dal suo lato romantico. Guardando una stalla dove alcuni servitori sellavano i cavalli, gli venne in mente che spalare il letame in una giornata in cui la neve era alta tre spanne non era tanto peggio che lavorare in una forgia o una miniera.
Alla fine trovò l'indirizzo da lui cercato: venne accolto da una donna vestita di scuro, che lo fece entrare in una stanza senza finestre, una specie di studio con le pareti coperte di tende leggere. Isolanti,pensò Jeff, e subito si chiese da dove gli venisse quella certezza. Oh, al diavolo! Un uomo e una donna si alzarono per accoglierlo: erano alti e severi, con la pelle molto chiara, gli occhi grigi e un'aria estremamente autorevole. Ma quando videro Kerwin lo guardarono con sorpresa, quasi con timore.
«Vai dom»,disse l'uomo, «voi ci rendete onore. In che modo possiamo servirvi?»
Ma prima che Kerwin potesse parlare, la donna storse il labbro, con disprezzo, e disse, in tono ostile: «Terrestre,che cosa volete?»
Immediatamente, anche l'uomo lo guardò con disprezzo. I due si assomigliavano, e dovevano essere fratello e sorella; la luce era scarsa, ma Kerwin notò che anche se avevano i capelli grigi, vi si scorgeva ancora qualche filo rossiccio. Tuttavia non avevano neppure lontanamente il portamento aristocratico dei tre darkovani che Kerwin aveva conosciuto all'hotel dell'astroporto, la notte del suo arrivo.
Spiegò: «Vorrei qualche informazione su questa pietra», e mostrò loro la gemma matrice. La donna aggrottò la fronte, fece un gesto come per dirgli di metterla via, poi andò a prendere un pezzo di tessuto dagli strani riflessi, una sorta di seta con fili metallici e pagliuzze. Avvolse con cura le dita nel tessuto e poi prese in mano la matrice, senza portarla a contatto della propria pelle. Kerwin, anche ora, ebbe l'impressione di avere già assistito allo stesso tipo di manipolazione.
Ho già visto qualcuno fare quel gesto, ma dove? e quando?
La donna osservò per qualche istante la matrice, mentre l'uomo la guardava da sopra la spalla. Poi quest'ultimo disse, con irritazione: «Dove l'avete presa? A chi l'avete rubata?»
Kerwin sapeva perfettamente che per un darkovano l'accusa di furto non era grave come per un terrestre, ma la cosa lo fece irritare ugualmente. Disse: «Maledizione, non l'ho presa a nessuno. L'ho sempre posseduta, fin da quando sono nato, e non so come sia arrivata a me. Potete dirmi che cos'è e da dove viene?»
Vide che i due si scambiavano un'occhiata. Poi la donna alzò le spalle e si sedette, con in mano la matrice. La esaminò con attenzione, servendosi di una lente d'ingrandimento, e mentre la osservava continuava ad aggrottare la fronte. Sul tavolo c'era una grossa lastra di vetro, opaca e scura, al cui interno si scorgevano molte luci lampeggianti. La donna fece di nuovo uno di quei gesti che a Kerwin parevano tanto familiari, e all'interno della massa di vetro le luci presero ad ammiccare, con un effetto ipnotico. Sopraffatto da un senso di déjà vu,Kerwin pensò: L'ho già visto fare da qualcuno.
E poi: No, è un'illusione. L'ho letto su un libro di psicologia: un emisfero del cervello vede un certo avvenimento pochi istanti prima dell'altro emisfero, e questo, quando gli giunge il messaggio dal primo, lo interpreta come un ricordo.
La donna disse, senza guardare Kerwin: «Non è nello schermo principale di controllo».
L'uomo avvolse a sua volta la mano nella seta isolante e poi si fece consegnare dalla sorella la pietra. Esaminò a sua volta il cristallo e infine chiese alla donna, con aria stupita: «Pensi che sappia che cosa abbiamo qui?»
«Neanche per idea», rispose lei. «Viene da un altro pianeta, come può saperlo?»
«Potrebbe essere una spia venuta a controllarci.»
«No, non sa niente», rispose la donna. «Lo sento. Ma non possiamo correre rischi, sono morte troppe persone che erano state anche solo sfiorate dall'ombra della Torre Proibita. Liberiamoci di lui.»
Con un certo fastidio, Kerwin si chiese se intendevano continuare a parlare di lui in terza persona, come se non fosse presente. Poi, con stupore, si accorse che non parlavano nel dialetto di Thendara, e neppure nel puro linguaggio casta delle montagne. Parlavano la lingua che Kerwin capiva perfettamente, benché non sapesse consciamente ripeterne neppure una sillaba.
La donna alzò la testa e disse al fratello: «Diamogli almeno il beneficio del dubbio. Forse ignora veramente tutto; in tal caso potrebbe essere in pericolo».
Poi si rivolse a Kerwin, nel gergo dello spazioporto: «Potete darmi qualche informazione sul cristallo e su come è arrivato fino a voi?»
Lentamente, Kerwin spiegò: «Penso che fosse di mia madre. Però, non so nulla di lei». E, per chissà quale impulso, gli parve che la cosa fosse importante: ripeté le parole pronunciate dall'uomo che l'aveva colpito.
«Dite al figlio del barbaro che non deve più ritornare nelle Piane di Arilinn, che la Campana d'Oro è vendicata...»
La donna rabbrividì; Kerwin vide chiaramente che la sua indifferenza andava in frantumi. La donna si affrettò ad alzarsi, e anche il fratello — come se in qualche modo avessero sincronizzato i loro movimenti — rese a Kerwin il cristallo.
«Non spetta a noi intrometterci nelle cose dei vai leroni»,gli disse, deciso. «Non possiamo dirvi niente.»
Kerwin, sorpreso, tentò di protestare: «Ma... voi sapete qualcosa, e non potete...»
L'uomo scosse la testa. Sul volto gli compariva un'espressione indecifrabile. Perché ho l'impressione di conoscere i suoi pensieri? si chiese Kerwin.
«Andate via, terrestre. Noi non sappiamo niente.»
«Chi sono i vai leroni? Che cosa...»
Ma i due volti, fratello e sorella, così simili e così arroganti, erano chiusi e impassibili; e dietro l'impassibilità, Kerwin lo sapeva, erano spaventati.
«Non spetta a noi.»
Kerwin stava per esplodere a causa della frustrazione. Alzò la mano in un gesto d'implorazione, inutilmente, e l'uomo fece un passo indietro, come se temesse di essere sfiorato; anche la donna si ritrasse con aria d'insofferenza.
«Mio Dio, non potete mandarmi via così, se sapete qualcosa... dovete dirmelo...»
La donna si addolcì leggermente. «Vi posso dire questo, e non altro. Pensavo che quella...»indicò la matrice, «...fosse stata distrutta quando... quando è morta la Campana d'Oro. Ma, dato che hanno deciso di lasciarla a voi, può darsi che un giorno o l'altro decidano anche di darvi una spiegazione. Però, se fossi in voi, non rimarrei qui ad aspettare. Voi...»
«Latti!» L'uomo la prese per il braccio. «Lascia stare. E voi», continuò, rivolto a Kerwin, «non siete gradito qui da noi. Né in questa casa, né in questa città, né in questo mondo. Non abbiamo nulla contro di voi, personalmente, ma la vostra presenza vicino a noi può metterci in pericolo. Andate.» E, poiché non si poteva ribattere a un'ingiunzione come quella, Kerwin se ne andò.
In un certo senso, Kerwin aveva previsto quel rifiuto. Un'altra porta che gli veniva sbattuta in faccia, come il computer che si era rifiutato di fornirgli i documenti della sua nascita. Ma lui, a quel punto, non poteva abbandonare la sua ricerca, neanche se l'avesse voluto, anche se cominciava ad allarmarsi, dopo tutte le minacce che aveva ascoltato.
Continuò a nascondere il colore dei suoi capelli, e anche se non indossò più il mantello darkovano, si tolse dal vestito tutte le mostrine del Servizio, in modo da poter passare per un privato cittadino quando si recava nella Città Vecchia, e alla fine prese la grande decisione: si sarebbe recato all'indirizzo che gli era stato fornito da Ragan.
Il numero civico era quello di una catapecchia che sembrava dover crollare da un momento all'altro; non c'era il campanello; dopo avere bussato, Kerwin dovette attendere a lungo perché gli venissero ad aprire. Stava quasi per andarsene, quando la porta si schiuse e si affacciò una donna che, con mano tremante, si teneva allo stipite.
Era una donna minuta, di mezza età, infagottata in uno scialle e una gonna pesante, non proprio lisi o sporchi, ma con un'aria generale di trasandatezza. Guardò Kerwin con sospetto; il terrestre ne ricavò l'impressione che faticasse a mettere a fuoco gli occhi.
«Volevate qualcosa?» chiese, senza interesse.
«Mi ha mandato un amico che si chiama Ragan», spiegò subito Kerwin, e le mostrò il biglietto che gli era stato dato dal mezzo-sangue. «Mi ha detto che siete un tecnico delle matrici.»
«Lo ero una volta», rispose la donna, con la stessa indifferenza di prima. «Ma già da molti anni mi hanno tolto dalle reti principali. Posso fare ancora dei lavori, certo, ma dovrò chiedervi un prezzo alto. Del resto, se non si trattasse di qualcosa di illegale, non vi sareste rivolto a me.»
«Non si tratta di qualcosa di illegale», precisò Kerwin, «almeno, per quanto ne posso sapere io. Però, può darsi che si tratti di qualcosa di impossibile.»
Finalmente, negli occhi opachi della donna si accese una luce di interesse. «Entrate», disse, e si fece di lato.
Kerwin si trovò in una stanzetta sorprendentemente pulita, con un vago profumo di erbe che bruciavano in un braciere; la donna attizzò il fuoco, sollevando alte nubi di fumo pungente, ma, quando si girò verso Kerwin, aveva l'aria molto più sveglia e attenta.
Kerwin aveva l'impressione di non avere mai incontrato una persona così scialba. Aveva i capelli grigi, sbiaditi come gli abiti, e quando camminava si muoveva con attenzione, come se fosse affetta da qualche dolore cronico. Si lasciò scivolare faticosamente su una sedia e, con un cenno della testa, indicò a Kerwin di sedere a sua volta.
«Che cosa volete, terrestre?»chiese. Poi, nel vedere la faccia stupita di Kerwin, accennò a una parvenza di sorriso. «Sì, parlate perfettamente la nostra lingua», disse, «ma non dimenticate quello che sono. Nel modo in cui camminate e nel modo in cui tenete la testa ci sono le abitudini di un altro mondo, e così nei gesti che fate. Non sprechiamo il nostro tempo in menzogne.»
Se non altro, si consolò Kerwin, non l'aveva confuso con il suo misterioso doppio. Si sfilò di testa il cappuccio e si disse: Può darsi che anche lei si comporti onestamente con me, se mi comporterò onestamente con lei. Poi infilò la mano sotto il colletto ed estrasse la pietra matrice. La mostrò alla donna.
«Sono nato su Darkover», spiegò, «ma mi hanno mandato sulla Terra. Mio padre era terrestre. Quando sono ritornato su Darkover, pensavo di non incontrare difficoltà a scoprire chi fossi.»
«Con questa matrice non dovrebbero essercene», rispose la donna. «Andrebbe bene per una Guardiana», commentò poi, avvicinandosi a essa; diversamente dagli altri due meccanici delle matrici, fratello e sorella, non isolò la propria mano prima di sollevarla per osservarla meglio.
A quel gesto, Kerwin rabbrividì. Per qualche motivo, non gli piaceva che la matrice venisse toccata da estranei. La donna notò il gesto e commentò, sorpresa: «Oh, allora questo lo sapete! È sintonizzata?»
«Non capisco», rispose lui, confuso.
La donna sollevò le sopracciglia. Poi disse: «Non preoccupatevi, sono in grado di proteggermi, anche se fosse sintonizzata. Non sono superstiziosa, e ho imparato molti anni fa, da lui stesso, personalmente, che qualsiasi tecnico che sia un po' competente può fare il lavoro di un Guardiano. Io stessa l'ho già fatto molte volte. Lasciate che la prenda io».
Sollevò la matrice, e Kerwin sentì solo una piccola scossa elettrica. Notò che le mani della donna erano molto belle, assai più giovani del resto del suo corpo: erano affusolate e lisce, con le unghie ben curate. Chissà perché, Kerwin si era aspettato che fossero sporche, con le unghie rosicchiate. Ma, anche ora, il gesto della donna gli parve avere qualcosa di familiare.
«Parlatemi di quel che vi è successo», disse la donna, e Kerwin le riferì ogni cosa. All'improvviso, si sentì profondamente a suo agio con quella donna, e le parlò delle persone che lo avevano preso per qualche misteriosa altra persona, dell'aggressione nel vicolo, della scomparsa delle registrazioni dai computer dell'orfanotrofio, del rifiuto da parte dei due tecnici delle matrici. A questo punto, la donna fece una smorfia di disprezzo.
«E dicono di non essere superstiziosi! Sciocchi!» commentò.
«Potete dirmi qualcosa?» terminò Kerwin.
La donna sfiorò il cristallo, con la punta di un'unghia che sembrava appena uscita dalle attenzioni della manicure. «Per prima cosa», disse, «non è nei relè principali. Perciò, potrebbe davvero essere appartenuta a qualcuno della Torre Proibita.
«Non saprei riconoscerla così, su due piedi», continuò, «ma è difficile credere che voi abbiate anche una sola goccia di sangue terrestre, vedendo come la matrice è sintonizzata su di voi. Comunque, è anche vero che certi terrestri... io stessa ho visto agire il vecchio Dom Anndra...
«Ma questo non c'entra», s'interruppe bruscamente. Si alzò e si accostò a un armadietto; frugò all'interno e ne tolse un oggetto avvolto nella stessa seta isolante che Kerwin aveva visto dai due fratelli.
Poi la donna fece ritorno al tavolo a cui era seduto Kerwin, e posò sul ripiano un piccolo appoggiatoio di steli d'erba intrecciati, sciolse con cura il pacchettino di seta e posò sugli steli d'erba una pietra matrice, assai più piccola di quella di Kerwin, ma molto più grande di quella appartenente a Ragan. All'interno della gemma parevano danzare alcune luci; Kerwin, dopo averle fissate per qualche istante, si sentì girare la testa. La donna fissò la propria matrice, poi quella di Kerwin, si alzò e andò di nuovo ad attizzare il braciere; anche ora si levò una nube di fumo soffocante che fece girare la testa a Kerwin. Quel fumo doveva contenere una droga potente, perché la donna, dopo averne inalato una lunga boccata, fissò Kerwin con attenzione. Adesso, i suoi occhi brillavano di intelligenza.
«Voi...» disse, incespicando stranamente sulle parole, «...non siete quello che sembrate. Troverete quello che cercate, ma finirete per distruggerlo. Voi siete quello che è stato mandato, siete la trappola che non è scattata; vi hanno allontanato perché vi salvaste, vi hanno tolto dalla tempesta per darvi in pasto agli uccelli-spettro... Troverete quello che desiderate, e lo distruggerete, ma nello stesso tempo riuscirete anche a salvarlo.»
Con irritazione, Kerwin disse: «Non sono venuto qui per farmi leggere la sorte».
La donna non gli diede ascolto. Continuò a mormorare tra sé, in modo incomprensibile. La stanza era buia, a parte il riflesso del braciere, e vi faceva molto freddo. Stanco di quella che riteneva una commedia a suo uso e consumo, Kerwin fece per alzarsi, ma la donna, con un gesto imperioso, lo costrinse a sedere, e lui si affrettò a obbedire. Stupito dall'autorevolezza di quel gesto, si disse: Che cosa starà brontolando, questa vecchia strega drogata? E che diavolo fa, adesso?
Il cristallo posato sul tavolo — il cristallo di Kerwin — aveva preso a splendere: si illuminava a intermittenza; l'altro cristallo, quello della donna, stretto fra le sue dita sottili, cominciò ad ardere di un fuoco blu sempre più intenso.
«La Campana d'Oro», mormorò la donna, con voce roca, pronunciando le parole lentamente, in modo da ottenere una parola sola, Cleindori. «Oh, certo, Cleindori era bellissima, e l'hanno cercata a lungo, molto a lungo, nelle alture al di là del fiume, ma lei si era rifugiata dove non avrebbero potuto seguirla, quegli orgogliosi, superstiziosi sciocchi che seguivano gli insegnamenti di Arilinn...»
Tutta la luce della stanza si concentrava adesso sulla faccia della donna: la luce che scaturiva dal cristallo. Kerwin ascoltò a lungo, seduto senza muoversi, mentre la donna fissava la gemma matrice e mormorava tra sé. Dopo qualche tempo, Jeff si chiese se fosse caduta in trance, se fosse una chiaroveggente capace di rispondere alle sue domande.
«Chi sono io?» le chiese.